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Il Coraggio della Giustizia

Come saranno state le feste dei ragazzi di Locri? Quelli con le magliette «E adesso ammazzateci tutti»? Quelli che dopo l'omicidio di Franco Fortugno hanno risvegliato - per qualche giorno - le nostre coscienze, costringendoci ad occuparci della Calabria? Immagino che siano state feste come quelle degli altri ragazzi. Allegre e spensierate. Ma forse non solo. Forse i ragazzi di Locri, oltre a divertirsi, hanno continuato a porsi domande, alcune ineludibili alla luce delle cronache dei gravi scandali economico-finanziari che affliggono il nostro Paese (aggiungendosi ai problemi di sempre). Hanno constatato che l'illegalità può anche assumere volti diversi dal sangue e dalle stragi: corruzione, scambio politico-affaristico, spreco di risorse, mancanza di controlli, inefficienza burocratica, evasione fiscale, arricchimenti troppo facili alle spalle degli onesti, raccomandazioni sistemiche, assistenzialismo clientelare... Capiscono, i giovani, che se non si batte anche questa illegalità, possiamo sconfiggere tutte le cosche che ci pare, ma non avremo costruito quasi niente. Non avremo dato - ai giovani che lo pretendono - un vero futuro, consentendo loro di pensare al lavoro, in particolare, come a un diritto e non come a un ricatto o una merce di scambio.
Alla fine i giovani di Locri si saranno magari chiesti se sia proprio vero che la «questione morale» è un ferrovecchio da accantonare o una «pruderie» di benpensanti. Spero abbiano concluso che si tratta invece di una grande questione democratica ed istituzionale: per la decisiva ragione che un sistema intriso di malaffare, di corruzione, o di rapporti con la mafia è l'emblema del prevalere dell'interesse privato sull'interesse pubblico, cioè di un sistema malato che non produrrà niente di buono per il futuro dei giovani.
Non solo ai giovani di Locri, ma a tutti i cittadini italiani, vorrei poi ricordare che l'accantonamento della «questione morale» è inestricabilmente intrecciato con la «questione giustizia». Sappiamo tutti che il sistema giudiziario spesso non funziona o funziona male. Eppure anche quel «poco» dà fastidio. L'obiettivo di chi attacca la giurisdizione, ieri come oggi, è avere meno, non più giustizia. Un esempio per tutti. Quando un uomo politico viene indagato per corruzione o collusioni con la mafia, prima o poi scatta - per il magistrato che procede - l'accusa inesorabile di fare politica. Accusa a senso unico, rivolta soltanto a chi indaga senza sconti, mentre chi si defila viene gratificato con gli applausi riservati al «giudice giusto» (il tutto, ovviamente, a prescindere dalla fondatezza delle decisioni, in un caso come nell'altro: ormai, gli interventi giudiziari vengono valutati non in base alla correttezza e al rigore, ma unicamente secondo la loro convenienza). L'accusa di «politicizzazione» fa coppia fissa con quella di «giustizialismo», parola che ormai usano con disinvoltura anche coloro che (non avendo interessi di bottega da difendere vomitando insulti) dovrebbero meglio riflettere, a partire dalla esemplarità della vicenda del termine. «Giustizialismo» è parola sconosciuta nel nostro lessico, finché qualcuno non decide di inventarsela di sana pianta per poter più facilmente archiviare il «pericoloso» consenso per la legalità che aveva accompagnato le indagini di Tangentopoli e la «seconda primavera» di Palermo. Assolutamente privo di novità e di senso sul piano dei contenuti, il neologismo ha avuto la sola finalità mediatica di avallare l'idea di un uso scorretto della giustizia da parte dei magistrati che adempiono i loro doveri senza timidezze o compromessi, così costringendo il dibattito a partire da verità rovesciate. Un trucco che in questi giorni si ripresenta, posto che l'accusa di «giustizialismo» torna ad inflazionare molti commenti sugli attuali scandali finanziari e bancari.In realtà, la politica con la «P» maiuscola (quella che voglia esercitare davvero il suo incontestabile primato, che si proponga di recuperare una dimensione etica della convivenza) dovrebbe individuare un problema da affrontare e risolvere, non da rimuovere o cancellare, tutte le volte che l'intervento giudiziario accerti fatti gravissimi sul piano politico-morale (indipendentemente dalla loro rilevanza sul versante della responsabilità penale, vigendo al riguardo regole ben diverse da quelle che presiedono alla responsabilità politico-morale). La conoscenza di questi fatti - in un Paese normale - dovrebbe innescare rigorosi percorsi di «bonifica». Invece, pur in presenza di comportamenti vergognosi accertati a loro carico, gli imputati vengono regolarmente difesi «a prescindere» se non beatificati; ed i magistrati che hanno scoperchiato la pentola maleodorante sono cialtroni. Se ancora oggi prevale la cancellazione della verità, occorre chiedersi il perché di questa anomalia. Può darsi che la verità sia incompatibile con una certa politica. Può darsi che una certa politica voglia liberarsi da ogni responsabilità di ieri, di oggi e - perché no? - anche di domani. Ma in questo modo la linea di demarcazione fra lecito ed illecito, morale ed immorale sfuma. E così non c'è Paese civile al mondo (neppure il nostro) che possa sopravvivere a lungo.E dunque, non è un caso che l'accantonamento della questione morale si presenti in coppia con la richiesta alla giurisdizione (sempre incombente: ieri come oggi) di fare un «passo indietro»; e che le dimissioni da incarichi pubblici a seguito di sottoposizione a processo penale, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei sistemi simili al nostro, siano rarissime e non si registrino neppure a fronte di sentenze definitive della Cassazione; non è un caso che nei programmi elettorali, non solo della maggioranza ma anche dell'opposizione, si stenti ad trovare un posto non soltanto di facciata all'imbarazzante problema del rapporto tra etica e politica. Il vecchio detto machiavellico secondo cui gli Stati non si governano con i «pater noster» fa evidentemente premio sul pensiero dei nostri «maggiori» - da Bobbio in poi - secondo i quali il malaffare è sempre privo di giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno, così il corrotto, il disonesto, il colluso e lo spregiudicato sovvertitore delle regole che valgono solo per gli altri restano tali, a prescindere dalle loro capacità e dai loro successi.
Sono sicuro che i ragazzi di Locri sono scesi in strada anche perché tutte queste cose cominciano ad intuirle e capirle sempre di più. Il mio augurio per l'anno nuovo, allora, è che non si rassegnino. Che insistano a pretendere legalità e giustizia, ovunque e da tutti. Faranno del bene anche a noi. In particolare a quelli fra noi che hanno più bisogno di scuotersi di dosso apatia o cinismo, anticamera della voglia di non distinguersi troppo da coloro che hanno prodotto strappi alla giustizia e alla legalità, nel nostro Paese, che non è possibile prevedere dove andranno a fermarsi. E che potrebbero addirittura allargarsi - se la tendenza non s'inverte - fino a ridurre a brandelli il nostro senso morale.

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