Basso Piemonte, ecco le motivazione delle condanne per 416 bis
Dalla nostra inchiesta (gli schemi sono pubblicati qui) presentata al convegno del 21 settembre 2012 ad Alessandria un contributo determinante alle condanne per 416 bis, in Appello a Torino, degli 'ndranghetisti del “locale” del basso Piemonte. Questo è uno degli elementi che emerge dalla lettura della Sentenza. Fatti che erano “sfuggiti” all'allora DDA di Genova che trasmise il filone “MAGLIO 1” (anche noto come ALBA CHIARA) a Torino e che invece dimostravano concretamente la capacità di intimidazione della 'ndrangheta nell'alessandrino e la penetrazione nella Pubblica Amministrazione ( Comune di Alessandria) promossa attraverso il CARIDI Giuseppe. Sullo sfondo la speculazione di San Bartolomeo che qualcuno negava (vedi ad esempio il CATTANEO Gaetano della Cassa Edile) essere uno degli elementi chiave per capire il contesto in cui agiva l'organizzazione 'ndranghetista.
Vediamo ora qualche elemento chiave che emerge nella Sentenza che ha ribaltato le assoluzioni di primo grado in condanne nette per 416 bis...
I giudici della Corte d'Appello di Torino ripercorrono i capi di imputazione, le risultanze che hanno portato all'Ordinanza di Custodia Cautelare (vagliate dal Gip, dal Tribunale del Riesame e della Cassazione) e le motivazioni del GUP di Torino che nella sentenza assolutoria impugnata riconosceva comunque l'esistenza della struttura 'ndranghetista nel basso Piemonte, finendo però nel sostenere che "il fatto non sussiste" (sic).
[…]
L'articolazione territoriale, secondo l'autorità inquirente, doveva ritenersi caratterizzata “dai seguenti elementi tipici:
- struttura tendenzialmente verticistica, ordinata secondo una gerarchia di poteri, di funzioni ed una ripartizione dei ruoli degli associati;
- pratica di riti legati per lo più all'affiliazione dei membri dell'associazione e all'assegnazione di “doti” o “cariche”;
- comunanza di vita e di abitudini, scandita dall'osservanza di “norme interne” che sanciscono in primo luogo la sottomissione ai capi;
- forza di coesione del gruppo che assicura omertà e solidarietà nel momento del bisogno ed, in particolare, assistenza agli affiliati arrestati o detenuti nonché sussidi economici ai loro familiari
- impermeabilità verso l'esterno ottenuta anche con l'utilizzo di linguaggi convenzionali;
- disponibilità di armi.”
[…]
Nella sentenza impugnata [che, a sua volta, richiama il quadro indiziario illustrato dal P.m. in occasione della richiesta di custodia cautelare; richiesta che, sia detto per inciso, fu accolta del Gip nei confronti di tutti gli indagati e confermata dal Tribunale del Riesame, prima, e dalla Corte di Cassazione, poi] vengono passate in rassegna le vere e proprie fonti di prova, ossia il contenuto probatoriamente utile, secondo la tesi dell'accusa, per dimostrare l'esistenza dell'articolazione territoriale della 'ndrangheta nel basso Piemonte.
Vengono pure riportati stralci della “conversazione dell'agrumeto di Rosarno” (del 30-8-2009) in cui interlocutori – OPPEDISANO Domenico, OPPEDISANO Michele, ZANGRA' Rocco e GARIUOLO Michele – mettono in luce il collegamento fra gli odierni imputati e la struttura di vertice della 'ndrangheta.
[…]
Dalla lettura di quei dialoghi, si legge nella sentenza impugnata, la pubblica accusa inferiva che l'insediamento della 'ndrangheta situato nel basso Piemonte era diretto da PRONESTI' Bruno Francesco – che nel “locale” ricopriva la carica di “Capo Società” - e aveva rapporti ed era stabilmente collegato alle strutture di vertice dell'organizzazione insediate in Calabria e rappresentate da OPPEDISANO Domenico.
Emerge altresì che l'incontro presso l'agrumeto fu organizzato al fine di ottenere da OPPEDISANO Domenico l'assenso alla costituzione di un nuovo “locale di 'ndrangheta”, nella zona di Alba, separato, autonomo e territorialmente distaccato da quello diretto da PRONESTI', onde assecondare le richieste – apparentemente – di natura logistica di ZANGRA' e di GARIUOLO (…)
Come riconosce il Gup di Torino nella sentenza impugnata, il quelle conversazioni veniva in rilevo il problema costituito dalla volontà di creare un nuovo locale di 'ndrangheta nella zona di Alba.
La decisione, in merito, doveva provenire dal vertice del sodalizio.
Infatti, OPPEDISANO affermava che ne avrebbe parlato con gli altri “capi” alla riunione annuale al Santuario della Madonna di Polsi, dove lo stesso OPPEDISANO annunciava che sarebbe stato elevato a “Capocrimine”. Lo stesso OPPEDISANO prometteva a ZANGRA' che si sarebbe fatto portavoce delle sue esigenze con PRONESTI' e che avrebbe cercato di convincerlo ad autorizzare l'apertura di una nuova struttura.
Il giudice di primo grado osserva, poi, come secondo “caposaldo” dell'indagine fosse costituito dall'attività di monitoraggio ambientale e OCP svolto il 30 maggio 2010 presso l'abitazione di PRONESTI' Bruno in quel di Bosco Marengo, frazione Levata Pollastra, via Emilia 10 (…)
In quell'occasione l'autorità inquirente viene a conoscenza di una importante riunione, presso l'abitazione di PRONESTI', con la partecipazione, oltre che degli appartenenti al locale del basso Piemonte, del referente del locale di Genova, GANGEMI Domenico, accompagnato da CONDIDORIO Arcangelo e NUCERA Lorenzo.
Anche in questa occasione venivano registrate alcune conversazioni ritenute estremamente significative per lo sviluppo delle indagini.
Si legge in sentenza che, secondo l'accusa, alla riunione erano presenti PRONESTI' Bruno Francesco, IANNIZZI Mariangela, DILIBERTO MONELLA Stefano, DILIBERTO MONELLA Luigi, GUZZETTA Damiano, PAPASIDERO Domenico, ZANGRA' Roco, PERSICO Domenico, GARIUOLO Michele, ROMEO Sergio, MAIOLO Antonio, INI' Giuseppe, COLOCA Roberto, CERAVOLO Fabrizio, BANDIERA Angelo, GANGEMI Domenico, CONDIDORIO Arcangelo e NUCERA Lorenzo.
Nel corso della stessa riunione MAIOLO Antonio annunziava ai presenti il suo prossimo matrimonio, dicendo che avrebbe gradito la partecipazione di tutti gli appartenenti al locale (“allora... io da 42 anni che convivo con la mia signora... no? … ora ho deciso che mi sposo... e mi farebbe piacere se avete piacere che del LOCALE di qua venite tutti!”). Seguiva la “conta” dei partecipanti e la conclusione degli investigatori per cui tutti i partecipanti al matrimonio sarebbero stati gli appartenenti al locale di 'ndrangheta di cui si tratta [“...se del locale venite tutti...”].
Erano così individuati: PRONESTI' Bruno Francesco, DILIBERO MONELLA Stefano, DILIBERTO MONELLA Luigi, GUZZETTA Damiano, ZANGRA' Rocco, PERSICO Domenico, GARIUOLO Michele, MAIOLO Antonio, Pino n.m.i. (verosimilmente, secondo la polizia giudiziaria, da individuarsi in PAPASIDERO Domenico, detto Pino), INI' Giuseppe, COLOCA Roberto, CERAVOLO Fabrizio, BANDIERA Angelo; erano da considerarsi partecipi, inoltre, sia ROMEO Sergio (assente al momento dell'appello in quanto impegnato ad accompagnare gli affiliati liguri), sia GARGIUOLO Luigi sia BANDIERA Gaetano (assenti all'incontro, ma citati nell'elenco), nonché CARIDI Giuseppe (assente per la partecipazione al battesimo del cugino).
Nel pomeriggio era poi registrata una conversazione che appariva di rilevante importanza rispetto alla dimostrazione della sussistenza della struttura territoriale del basso Piemonte, riportata in forma integrale in sentenza.
Il dialogo, osserva il giudice, aveva chiaramente ad oggetto la struttura della 'ndrangheta, le articolazioni territoriali, la distinzione fra “società minore” e locale, la ripartizione di ruoli all'interno della struttura di nuova formazione. Nel corso della conversazione era anche affrontato il tema di chi dovesse occuparsi di “formare” i giovani che entravano a far parte della struttura.
Lo stesso giudice poi sottolinea come, dal punto di vista della ricostruzione della esistenza di una struttura “decentrata” della 'ndrangheta che riprendeva schemi organizzativi propri della matrice calabrese e con essa e con altre articolazioni territoriali manteneva stretti legami, questi elementi probatori dovessero ritenersi altamente significativi.
Il Gup si sofferma anche sugli elementi probatori giudicati indicativi della sussistenza della struttura associativa dall'ufficio del PM procedente […]
Poi il giudice di primo grado, quale prova della sussistenza del locale di 'ndrangheta nel basso Piemonte, riporta la conversazione ambientale intercorsa il 20 agosto 2010 in ambiente (abitazione di PRONESTI' Bruno Francesco in Bosco Marengo) fra lo stesso PRONESTI' e PRONESTI' Domenico.
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Nella sentenza impugnata si dà pure conto di una conversazione ambientale registrata il 22.8.2010, sempre a casa di PRONESTI'. Anche questo dialogo, osserva il giudice di primo grado, assumeva rilievo probatorio rispetto alla esistenza di una struttura organizzativa e di collegamenti con la 'ndrangheta calabrese, infatti non esita a riportare la chiave di lettura fornita dall'Ufficio inquirente secondo il quale: “(...) Nel corso del dialogo PRONESTI' Bruno Francesco affermava di aver ricevuto notizie rassicuranti da parte del suo avvocato il quale aveva chiarito che, sebbene negli atti giudiziari fosse emerso il suo nome, non vi erano elementi di prova a suo carico (“poi io qua sono andato dall'avvocato e gli ho detto... avvocato le vedete ste cose qua... e gli ho detto ...inc... come perdiamo tempo ci buttano fuori... se c'è qualcosa me lo dite in primis... (la risposta dell'avvocato ndt.) ...inc... dice io ci penso per queste cose qua... si nominano voi... però non è che hanno parlato per voi o... dice non c'è niente... comunque state tranquillo che per questo fatto qua non c'è niente... gli ho detto posso stare tranquillo... dice si...”).
Nel prosieguo, PRONESTI' ipotizzava che il provvedimento cautelare trovava fondamento non solo nelle attività di intercettazione esperita, ma anche nel contributo apportato alle indagini da confidenti o da collaboratori di giustizia (“Tranquillamente... si è visto nel video... mi pare di aver visto.. a quello di Polistena... Vincenzo Longo (classe 63) e un certo Surace... erano tutti due insieme questo Surace con Vincenzo Longo... e dopo si è visto, si vedeva che uscivano... si baciavano... A questo Surace non lo hanno arrestato! … cioè era lì insieme a Longo, solo che a questo qua non lo hanno arrestato (si riferisce a Surace ndt) … lo hanno lasciato a piedi piedi (termine dialettale per indicare che stato lasciato in giro ndt)... chissà cosa c'è... quale imbroglio... (…) Si Si … perché il Vecchio (OPPEDISANO Domenico ndt) mi aveva detto... a me... io sto aspettando.. canti (espressione usata per indicare qualcuno che ha parlato ndt) … perché dice che ci sono due pentiti a Reggio... sto aspettando solo il momento che arrivano (PRONESTI' narra le parole di OPPEDISANO, il quale con questa frase intende il momento in cui arriveranno per arrestarlo ndt).. Avevo scambiato due parole così perché...”).
Di seguito, PRONESTI' Bruno Francesco, nel parlare del problema delle microspie e dei controlli delle forze dell'ordine, citava come esempio una riunione svoltasi in Liguria a cui aveva partecipato e che era precipiamente finalizzata alla concessione di doti.
Dai particolari dettagli offerti nel dialogo, la Polizia giudiziaria riuscì a confermare che il summit citato era quello svoltosi in località Giambranca nel comune di Bordighera (IM) in data 17 gennaio 2010.
L'indicata località dista da Ventimiglia circa 10 Km: la vicinanza tra i due luoghi probabilmente ha indotto PRONESTI' ad indicare il sito con l'appellativo di “Ventimiglia”.
I ROS CC di Genova in tale occasione accertarono che all'incontro avevano partecipato GANGEMI Domenico, GARCEA Onofrio, MULTARI Antonino, BELCASTRO Domenico, CIRICOSTA Michele, PEPE' Benito, BARILARO Francesco, BARILARO Fortunato, COTRONA Antonio ed anche PRONESTI' Bruno Francesco.
Tale conversazione comprovava ulteriormente il ruolo di vertice ricoperto dal PRONESTI' ed il prestigio di cui godeva all'interno dell'associazione, tanto da essere invitato a partecipare al conferimento di doti riguardante un altro locale di 'ndrangheta.
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Dopo questo excursus il giudice di primo grado passa poi ad esaminare gli elementi di prova relativi agli aspetti definiti, dall'autorità inquirente, “dinamici”, ossia all'esame di quegli elementi idonei a dimostrare l'esistenza di riti per il conferimento delle “doti”, l'esistenza di procedimenti finalizzati a sanzionare la violazione delle regole interne da parte dei partecipi (cd. “trascuranze”) e i vincoli di solidarietà tra gli associati e, in particolare, gli obblighi di sostentamento degli associati detenuti.
Quanto al primo aspetto, la sentenza impugnata ripercorre la ricostruzione “dei riti” per il conferimento delle “doti”, operata dall'ufficio inquirente.
Viene sottolineata fra l'altro l'importanza della partecipazione ai tali riti della delegazione del “locale genovese”, con GANGEMI Domenico.
Viene poi ripreso un dialogo, ritualmente intercettato in ambientale, fra GANGEMI e GARCEA, del “locale di Genova”, in cui i due, dopo essere stati verosimilmente a partecipare ad un “rito”, commentano “... il rituale è bello in tutte le cose, è quello che fa... il rituale ci vuole, ci vuole tutto, il rituale bisogna prepararlo e basta...” (conversazione n.92 del 28.2.2010).
Il commento che seguiva – oggetto di una successiva conversazione captata fra gli stessi soggetti – riguardava un imputato dell'odierno processo, ossia la cerimonia per il conferimento della dote a CARIDI Giuseppe.
Un passaggio significativo di questa conversazione, si sottolinea in sentenza, era quello relativo all'affidabilità del nuovo affiliato e, in particolare, il fatto che “avesse vestito una divisa”, cioè fosse uomo delle istituzioni, ciò che avrebbe dovuto costituire, secondo le (vecchie) regole dell' “Onorata Società”, un concreto ostacolo alla affiliazione.
Il rilievo investigativo, osserva ancora il giudice, era da ascrivere alla ritenuta “opportunità di adeguarsi” ai tempi ed alla oggettiva utilità di avere un personaggio politico fra gli affiliati.
In ogni caso, osserva ancora il primo giudice, dalla lettura di questi dialoghi emergeva come, nonostante CARIDI fosse un “politico” e potesse rappresentare un pericolo (perché avrebbe potuto prendere decisioni contrarie agli interessi della “onorata società” ed. promuovere o partecipare a votazioni per una legge “antimafia”), era un “buon cristiano” e poteva restare nella compagine.
La sentenza passa poi ad illustrare gli elementi di prova in base ai quali si doveva concludere che la cerimonia di affiliazione in questione riguardava proprio CARIDI.
Come accennato, tra gli elementi dinamici tipici della 'ndrangheta la sentenza si sofferma su alcuni episodi di “trascuranza”, ossia sulla violazione delle regole sociali proprie della 'ndrangheta e sulle conseguenti “sanzioni” comminate dai capi dell'associazione.
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Altro elemento dinamico significativo trattato nella sentenza appellata è il sostegno offerto agli affiliati detenuti.
Si porta l'esempio di CERAVOLO Fabrizio (arrestato in data 11 ottobre 2009 per porto e detenzione di arma clandestina) e dell'aiuto prestato da LIBRIZZI Francesco durante la detenzione di ZANRA' Rocco (…)
Il giudice di primo grado rileva che, quanto al primo aspetto, erano state registrate una serie di conversazioni telefoniche successive all'arresto che dimostravano l'interessamento di alcuni appartenenti al locale. Significativo, ritiene poi il fatto che GARIUOLO Michele, parlando dell'assistenza al detenuto, usasse queste espressioni “e va bene, va bene, adesso in qualche modo vediamo.. Rocco ci stiamo ci stiamo ci stiamo impegnando tutti, non è che l'abbiamo presa sotto gamba...”.
Infine, il giudice – mutando le considerazioni degli inquirenti – passa ad esaminare il carattere armato dell'associazione, indicando a sostegno delle affermazioni una serie di elementi probatori: l'arresto di CERAVOLO e ZANGRA' in data 11 ottobre 2009, trovati in possesso di una pistola Beretta cal. 7,65 con matricola abrasa e caricatore inserito; il successivo rinvenimento, presso l'abitazione di CERAVOLO, di un revolver cal. 6,35 in stato di perfetta efficienza; una conversazione ambientale intercettata, poi, il 29 giugno 2010, presso l'abitazione di PRONESTI' Bruno Francesco, chiaramente evocativa della disponibilità di un'arma da fuoco da parte di PRONESTI' Bruno Francesco […]
Operata questa ricostruzione dei fatti il giudice passa, quindi ad esaminare la possibilità di ricondurli al paradigma dell'associazione di cui all'art. 416 bis c.p. dandosi pena di verificare se gli elementi probatori raccolti nel corso delle indagini fossero in grado di integrare gli elementi costitutivi del reato contestato, riservando all'esito di tale positivo accertamento la verifica della partecipazione (o meno) di ogni singolo imputato all'associazione criminale di tipo mafioso.
Dopo un rapido, quanto pregevole, excursus storico-politico in ordine alla genesi dell'associazione di tipo mafioso, il giudicante concentra la sua attenzione sul predicato verbale contenuto nella definizione normativa, ossia sull'avvalersi “de metodo mafioso”, da parte del gruppo mafioso (il locale di 'ndrangheta di cui si discute), in un certo contesto territoriale, quale elemento costitutivo oggetto del terzo comma dell'art. 416 bis cp: “l'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti (...)”.
Lo stesso giudice, dopo aver tenuto in adeguata considerazione le opinioni espresse dai più autorevoli commentatori, giunge a tratteggiare i caratteri del “metodo mafioso” secondo quelli che sono stati da lui ritenuti: “i principali, e maggiormente condivisibili, arresti giurisprudenziali”.
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Nell'interrogarsi sul significato della locuzione “si avvalgono” che compare nel terzo comma dell'art. 416 bis c.p. e che viene riferita alla forza di intimidazione, il primo giudice afferma che avvalersi significa, letteralmente, utilizzare, fare uso, notando come il verbo sia utilizzato all'indicativo.
Sicché, pur non essendo richiesto il compimento effettivo ed attuale di atti di intimidazione (caratterizzati cioè, tipicamente, da violenza e minaccia), è necessario che esista (e se ne dia ovviamente la prova) quello che viene definito dai commentatori come un alone permanente di intimidazione diffusa, tale da mantenersi vivo anche a prescindere da singoli atti intimidatori concreti posti in essere dagli associati.
Ciò perché, si legge nella sentenza appellata, a disposizione fa riferimento alla forza di intimidazione quale strumento che gli associati utilizzano per raggiungere i propri fini, forza che deriva direttamente dal vincolo associativo, ossia dalla associazione in sé e non già dal compimento di singoli atti di violenza e minaccia (pur tipiche espressione di intimidazione).
Ma, prosegue il giudice di primo grado, ciò non vuole dire che sia sufficiente, da parte degli associati, lo sfruttamento potenziale della forza di intimidazione o l'intenzione di dar vita ad atti intimidatori: deve invece essere presente, effettiva e dimostrata una capacità attuale di incutere timore, obiettivamente riscontrabile, essendo invece insufficiente la prova della sola intenzione di produrre quell'alone di intimidazione diffusa o di avvalersene […]
Sulla scorta di questa elaborazione giurisprudenziale, continua il giudice di primo grado, si può allo stato affermare che l' “avvalersi” può non manifestarsi con atti di violenza o minaccia, dovendo però possedere carattere effettivo e non solo potenziale o intenzionale.
Ciò che peraltro deriva dalla “comprensione” e traduzione nel contesto della fenomenologia mafiosa nella sua espressione tipica: laddove l'intimidazione mafiosa non ha bisogno di esprimersi con atti di violenza e minaccia essendo sufficenti forme sottilmente allusive (influenze e condizionamenti) che sono però idonee a determinare la coartazione della altrui volontà e dunque a diffondere assoggettamento e omertà, consentendo il perseguimento degli scopi.
[…]
Fatta questa premessa il primo giudice perviene all'assunto per cui “la forza di intimidazione del vincolo associativo” è un elemento oggettivo di fattispecie che costituisce l'in sé dell'associazione di tipo mafioso […]
Ma se la “forza di intimidazione” presuppone una “carica intimidatoria autonoma”, prosegue la sentenza impugnata, ciò significa che – fenomenologicamente e socialmente prima ancora che da un punto di vista giuridico – l'attribuzione del carattere di autonomia, che implica l'assenza (o meglio la non necessità) di atti di violenza e minaccia, necessita di una fase dinamica e nucleare rispetto allo sviluppo di tale intrinseca capacità intimidatoria, questa sì, assai verosimilmente, caratterizzata dalla commissione di una molteplicità di atti di violenza e minaccia, di tale portata da essere in grado, con il tempo, di diffondere la consapevolezza, in capo ai consociati, della presenza dell'associazione così caratterizzata.
Peraltro, la stessa sentenza osserva come le associazioni mafiose “classiche” o “tradizionali”, storiche, abbiano di regola, giù formata e consolidata, la “carica intimidatoria autonoma” per chiedersi, immediatamente dopo, come debba essere intesa la necessità di riscontrare il requisito dell'art. 416 bis comma III cp in quelle associazioni che differiscono da quelle tradizionali in quanto presentino aspetti peculiari che attengono ai dati soggettivi, oggettivi ovvero geografici e territoriali.
Secondo il Gup del Tribunale ciò che caratterizza ed accomuna questa forme criminali, cui si ritiene di predicare la mafiosità “è la non piana percepibilità – a causa delle differenze rispetto alle mafie storiche che si sono tratteggiate – della “carica intimidatoria autonoma”.
Si può trattare di nuove forme di associazioni imprenditoriali criminali, che agiscono in taluni settori merceologici o i cui appartenenti siano tutti caratterizzati per la riferibilità ad una categoria particolare.
Secondo il primo giudice è necessario verificare concretamente l'esistenza del requisito in parola, sindacando la storia criminale della “nuova” associazione, così da poter rinvenire (o meno) tracce del consolidarsi della capacità intimidatoria, in questo caso necessariamente insita in “concreti atti di violenza e minaccia”, idonei a creare e diffondere la “carica intimidatoria autonoma”, che si è visto essere requisito essenziale per la attribuzione del carattere mafioso ad una associazione criminale, e che non siano esclusivamente riferibili alla commissione di reati scopo.
[…]
Sulla scorta di queste premesse, il primo giudice conclude che la forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, sono elemento costitutivo (anche) dell'associazione che fa capo alla 'ndrangheta, rappresentando l'in sé della condizione di diffuso timore che permea la società nel cui contesto si inserisce l'associazione di tipo mafioso.
Per poi affermare che il riferimento alla forza di intimidazione presuppone e sottintende i parametri dell'assoggettamento ed omertà.
Conseguentemente, si legge ancora nella sentenza impugnata, la prova della sussistenza della forza intimidatrice e della sua strumentalizzazione da parte dell'associazione deve essere data dimostrando le condizioni di assoggettamento ed omertà, che altro non sono se non il portato della carica intimidatoria autonoma e del suo riflesso esterno, ossia l'alone di diffusa intimidazione, concetti già delineati supra.
[…]
Per il primo giudice è dunque necessario che l'associazione abbia conseguito una reale capacità di intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi di tale forza.
E' un passaggio importante della sentenza appellata quello secondo il quale la forza di intimidazione, quale elemento oggettivo della fattispecie, va verificato in concreto, alla luce cioè delle particolarità della vicenda processuale, sicché laddove si tratti di procedimenti relativi ad associazioni di tipo tradizionale, insediatesi nei territori di storica permeabilità del tessuto sociale rispetto alle infiltrazioni mafiose, la dimostrazione della esistenza della forza di intimidazione del vincolo associativo – pur non potendosi presumere – è piuttosto agevole, posto che le condizioni di assoggettamento e di omertà che discendono dal radicamento, anche profondo, delle cosche o 'ndrine insediatesi in quel territorio trovano solitamente numerosi riscontri probatori (quali pregresse attività della consorteria mafiosa, poi sfociate in sentenze passate in giudicato, sicuramente dimostrative di come – in quel territorio – lo sfruttamento della carica intimidatoria di quel gruppo mafioso abbia prodotto l'alone di intimidazione diffuso che ne è il riflesso esterno).
Lo stesso giudice si preoccupa poi di chiarire che l'attenzione verso la ricerca di indici rivelatori della “forza di intimidazione”, se deve valere a maggiori ragione laddove si sia di fronte a fenomeni che in qualche maniera si distinguono da quelli “classici”, non per questo può essere di minore intensità laddove si sia di fronte a fenomeni riconducibili (per forme, soggetti, strutture) alle mafie storiche ma contestualizzate in altro territorio, altro nel senso di differente da quelli nei quali “tradizionalmente” quei fenomeni allignano.
Ed allora, prosegue il primo giudice, se si ritiene che una determinata struttura organizzata che si richiama a modelli organizzativi riconducibili alla 'ndrangheta e con la “casa madre” calabrese ha rapporti, più o meno stretti, esplichi la propria attività (tentando di perseguire i fini propri indicati nell'art. 416 bis cp, attuati valendosi dello strumentario costituito dalla forza di intimidazione) nel territorio del “basso Piemonte” - ed ivi si reputa radicata la competenza territoriale, ciò significa che proprio in questo territorio dovrà essere compiutamente dimostrata la sussistenza effettiva del primo livello di carica intimidatoria autonoma e del suo riflesso, ossia l'alone di diffusa intimidazione.
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Ora, prosegue il Gup del Tribunale, non è un caso che si sia menzionata la necessità che siano gli appartenenti al singolo gruppo criminale, o locale di 'ndrangheta di cui si tratta, nel territorio nel quale si assume che la struttura si sia insediata, a sfruttare la carica intimidatrice autonoma, con il correlato alone di intimidazione diffusa.
Tanto è vero che, nel corso della udienza preliminare, su questo presupposto rigettava le eccezioni di incompetenza territoriale, e, correlativamente, riteneva ben radicata la competenza territoriale distrettuale del Tribunale di Torino (…)
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A questo punto il giudice si dà pena di chiarire alcune aspetti, perché non traggano in inganno affermazioni che mirano a trasformare il requisito oggettivo di cui si sta trattando in elemento intenzionale e finalistico, poggiando sulla considerazione che l'art. 416 bis cp disegna una fattispecie a tutela anticipata, di pericolo.
A tal fine muove della constatazione che il bene protetto dalla disposizione è l'ordine pubblico e che i commentatori più attenti hanno evidenziato che la protenzione è rivolta all'ordine pubblico materiale, inteso come buon assetto e regolare andamento della vita sociale dello Stato, ma anche alla libertà morale dei consociati, id est la facoltà di autodeterminarsi nelle decisioni e nelle scelte.
Pertanto, continua il primo giudice, è sulla scorta di questi elementi che deve essere analizzata la struttura del reato, per verificare se si tratti di fattispecie di danno o di pericolo.
Per poi affermare che, per l'esistenza del reato, “è necessario che la consorteria abbia raggiunto una carica intimidatoria autonoma minima” (…), e che, rispetto ad essa, prima di – ed indipendentemente dal – realizzare condotte dirette a perseguire gli scopi associativi, proprio nel raggiungimenti di tale soglia di assoggettamento, “... la libertà morale dei consociati è già stata lesa effettivamente, perché la consorteria delinquenziale si è già annidata in quel tessuto sociale incutendo timore e soggezione, creando dunque quell'alone di diffusa intimidazione che caratterizza la forza intimidatrice del vincolo associativo”.
Nella sentenza appella si legge ancora che: “In una visione statica e non dinamica del fenomeno, la fotografia del momento storico che segna il sorgere del carattere mafioso della associazione rappresenterà i consociati in condizioni di menomata libertà di autodeterminazione, perché un certo livello di succobanza e soggezione dovrà dirsi già raggiunto. Sotto questo aspetto, dunque, si è di fronte ad una fattispecie di danno e non di pericolo. Solo rispetto alla incriminazione del “programma” di commettere una serie di reati scopo, poi, si è di fronte alla tutela anticipata tipica della fattispecie di pericolo”.
Fatta questa premessa il giudice del Tribunale giunge, con tranquillità, a negare che la pretesa natura di reato di pericolo dell'associazione di tipo mafioso comporti modificazioni strutturali alla fattispecie, per giunta dipendenti dalla maggiore o minore facilità di dimostrarne gli elementi costitutivi, a seconda del territorio nel quale si affermi l'operatività (presunta o reale) del gruppo delinquenziali.
Tale conclusione, osserva ancora il primo giudice, sarebbe necessaria vuoi perché la tutela anticipata (si è in realtà appena visto come si tratti di fattispecie di danno e di pericolo, rispetto alla duplicità dei beni primari tutelati) nulla avrebbe a che vedere con l'individuazione degli elementi costitutivi del reato, che sono e restano tali indipendentemente dalla prima; vuoi perché sarebbe contrario ai più elementari principi in tema di interpretazione ed applicazione della norma penale richiedere, o meno, la dimostrazione dell'esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie, in ragione della constatazione che in determinati territori è più difficile la dimostrazione della esistenza di quel requisito.
Stando alla sentenza appellata, a questa conclusione sarebbe giunto non solo l'Ufficio inquirente, che non avrebbe offerto alcuna dimostrazione della consistenza del requisito della forza intimidatrice (e nemmeno è riuscito nell'intendo mediante la produzione della decisione, di documenti che hanno determinato il primo giudice alla adozione del potere integrativo...) e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne discendono […]
Il giudice di primo grado questa volta non condivide le argomentazioni della Suprema Corte. Contesta, infatti, che la struttura del reato, qualificato come a tutela anticipata, possa spingere un elemento costitutivo oggettivo del reato (la cui esistenza va dunque necessariamente accertata) verso aspetti finalistici o programmatici, pena lo stravolgimento stesso della natura della fattispecie di cui all'art. 416 bis cp, privato – a dire del primo giudice – della sua caratteristica essenziale, ossia “lo sfruttamento, per il raggiungimento degli scopi, delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla forza di intimidatrice del vincolo associativo”.
Il primo giudice non approva neppure il dictum della Suprema Corte laddove reputa non necessario che sia verificato il concreto esercizio, o lo sfruttamento, della forza intimidatrice per effetto della difficoltà di riscontrarne il livello nelle regioni “refrattarie” a subire i metodi mafiosi propri della 'ndrangheta.
[…]
In modo coerente al suo tracciato motivazionale, il primo giudice non condivide neppure le conclusioni della Suprema Corte che, nel suo percorso ermeneutico, renderebbero superfluo l'accertamento della forza di intimidazione (che viene peraltro collegata alla realizzazione di atti di violenza o minaccia, che si è gi visto non sono in realtà necessari ai fini della dimostrazione del requisito della forza intimidatrice), per accontentarsi della sussistenza della sua potenzialità in luogo dell'attualità. Potenzialità, desunta da caratteristiche organizzativo-strutturali del “locale” del quale si afferma peraltro l'autonomia), della ritualità e del conferimento di doti, dal mantenere collegamenti con la 'ndrangheta calabrese, con la conseguente affermazione di una (astratta) capacità di intimidazione che renderebbe possibile l'applicabilità alla fattispecie del paradigma di cui all'art. 416 bis cp.
[…]
Sicché, continua il primo giudice, pur di fronte ad un locale “perfetto”, in tutti i suoi aspetti organizzativi, qualora in seguito all'assunzione di informazioni e testimonianze in loco non fosse risultata concretamente alterata alcuna regola di contrattazione o mercato, non fosse emersa alcuna capacità di controllo di qualsivoglia attività economica e non si fosse palesata alcuna influenza negativa sugli appartenenti al gruppo, in questo caso la società civile non ne risulterebbe in alcun modo assoggettata, e resisterebbe dunque, libera, dalla stessa possibilità che vengano realizzati gli scopi previsti e vietati dall'art. 416 bis cp valendosi dell'apparato strumentale mafioso, cioè la forza intimidatrice, capace di soggiogare e imbrigliare azioni e volontà.
Ergo, in un simile caso, per il primo giudice non vi sarebbe alcuno spazio per applicare ai componenti di tale “sodalizio” la disposizione di cui si tratta ma, al più, ove le prove indicassero la sussistenza di un programma criminoso, la più generale fattispecie di cui all'art. 416 cp che nel caso di specie è stata esclusa difettando la prova di un qualsivoglia programma criminoso.
[…]
In conclusione il giudice vole l'attenzione ai documenti acquisiti, ex art. 441, comma 5, c.p.p., su istanza del P.M. prima della decisione.
Dopo aver premesso che si tratta di atti relativi ad un procedimento archiviato come “fatti non costituenti reato”, sottolinea che, nel merito, si tratta di una vicenda relativa a un acceso diverbio (“dissidio”) intervenuto fra l'imputato CARIDI Giuseppe, all'epoca Presidente della Commissione Territorio, e il collega Paolo Bellotti, quest'ultimo esponente del partito dell'Italia dei Valori facente parte dell'opposizione consiliare.
Il primo giudice osserva ancora come tali fatti avessero dato luogo ad un procedimento privo di rilevanza penale (…), nell'ambito del quale la Procura aveva effettuato accurati approfondimenti mediante l'assunzione di informazioni dai testimoni: approfondimenti finalizzati a chiarire anche l'asserito “interesse” extraistituzionale di CARIDI, quale Presidente della Commissione Territorio, in ordine all'approvazione del PEX per la realizzazione di un complesso residenziale in località Valle San Bartolomeo.
Ma neppure tali circostanze, a dire del primo giudice, potevano ritenersi rappresentative di un clima di diffusa intimidazione creato dalla penetrazione della associazione 'ndraghetista nel territorio del basso Piemonte, in quanto i contorni oggettivi della vicenda portavano ad escludere la dimostrazione dello sfruttamento della forza intimidatrice.
Dall'esame degli atti di tale procedimento (…), secondo il primo giudice, sarebbe emerso che Bellotti e CARISI si sarebbero limitati a discutere nel corso di una seduta della Commissione Territorio sull'orario di convocazione della Commissione (era convinzione del Bellotti che CARIDI, quale Presidente, convocasse la Commissione in orari incompatibili o comunque non favorenti la partecipazione dei professionisti aderenti al Comitato a tutela di Valle San Bartolomeo), e, nel corso della discussione, Bellotti avrebbe apostrofato CARIDI con il termine “quaquaraquà” e questi, visibilmente adirato, gli avrebbe scagliato una sedia.
Rileva ancora il primo giudice come il teste Romagnoli, giornalista della testata Il Piccolo di Alessandria che assistette all'episodio, abbia ricordato un gesto di nervosismo di CARIDI (“creso che nell'intenzione di CARIDI non vi fosse di colpire Bellotti ma si trattò proprio di un gesto per scaricare il nervosismo (...)” sit Romagnoli 4.10.2012). Lo stesso teste ricordava anche che Bellotti, nei giorni successivi all'evento, gli riferì che CARIDI, giorni dopo, organizzò una cena per chiedergli scusa e che lui accettò le scuse. Bellotti, dal canto suo, precisava che la cena riparatrice fu organizzata perché il consigliere comunale Vincenzo DE MARTE (anch'egli appartenente all'I.d.V., ossia allo stesso gruppo politico di Bellotti e, stando allo stesso Bellotti, personaggio “vicino” a CARIDI), subito dopo l'episodio si offrì a fare da pacere con CARIDI, ammonendo Bellotti a non sporgere denunzia soggiungendo che si era cacciato in un guaio più grosso di lui.
Così Bellotti si dichiarò disponibile a non sporgere denunzia, a condizione che CARIDI gli chiedesse scusa. Durante la cena CARIDI gli porse le scuse e giustificò il suo nervosismo con la malattia della figlia, spiegandogli al contempo il significato gravemente offensivo dell'epiteto “quaquaraquà” per un calabrese.
Bellotti, solo dopo gli arresti per l'operazione “Albachiara”, riferì di aver pensato per la prima volta a possibili interessi 'ndranghetistici relativamente al progetto edilizio Valle San Bartolomeo e di aver colto lo spessore mafioso dei discorsi che gli fece CARIDI proprio durante quella cena.
Questo episodio, secondo il primo giudice, doveva ritenersi scarsamente significativo poiché, per stessa ammissione del Bellotti, l'apprezzamento della mafiosità del comportamento di CARIDI fu apprezzato dal collega, destinatario della violenta reazione, solo ex post e non nel momento in cui avvenne.
Sicché, stando alle parole di Bellotti (che è il teste principale, nella stessa prospettazione accusatoria della rilevanza di tale elemento), durante la cena organizzata da DE MARTE, che lo avvicinò dopo il lancio della sedia ammonendolo sul fatto che si era “cacciato nei guai”, CARIDI si scusò, adducendo a giustificazione del suo gesto il nervosismo indotto dalla malattia della figlia.
Allora, continua il primo giudice, affinché Bellotti non sporgesse denunzia non solo venne organizzata una cena, ma CARIDI si giustificò con il collega per il comportamento tenuto, chiedendo al Consigliere dell'opposizione di non sporgere denunzia.
Neppure questo episodio, come rievocato dal Bellotti, a dire del giudice di prime cure, poteva ritenersi dimostrativo di un clima di diffusa intimidazione creata dalla associazione 'ndranghetistica in quanto fu lo stesso collega di partito di Bellotti, DE MARTE, ad avvisarlo che si era “cacciato in un guaio più grosso di lui”.
Sicché Bellotti, ipoteticamente vittima di un gesto tipicamente intimidatorio, non sarebbe stato previamente editto del significato di tale gesto. Anzi, per nulla intimidito da CARIDI, fu lui ad apostrofarlo con una espressione offensiva, scatenando la reazione di quest'ultimo.
Inoltre, durante la cena di riappacificazione, CARIDI sarebbe addirittura giunto a giustificarsi con Bellotti dicendogli che era nervoso.
Ora, continua il giudice di prime cure, è vero che Bellotti riferì di un clima particolare durante la cena, ricordando i racconti di CARIDI sulle “faide” scatenate in Calabria, con omicidi, per la sola uccisione di un maiale. Ma è anche vero che alla fine vi fu la “riappacificazione” e non vi furono le reciproche denunzie.
Infine, annota ancora il giudice, risulta dirimente il fatto che Bellotti non avvertì, in quel momento, alcun metus ricollegabile ad una associazione di tipo mafioso o al fatto che CARIDI ne fosse espressione.
Dunque, si legge nella sentenza appellata, tale episodio non può dimostrare, da solo, l'esistenza del clima omertoso indotto dalla conoscenza della temibilità di chi si sa appartenere ad un gruppo mafioso. A ben vedere, poi, il fatto stesso che “l'intimidazione” sia avvenuta in una sede pubblica, alla presenza degli organi di stampa, ne elide, in gran parte, il carattere di avvertimento mafioso che ad essa si vuole attribuire.
Né, continua il primo giudice, il comportamento successivo tenuto da DE MARTE nei confronti di Bellotti – che una sera, salito sulla sua auto, lo aggredì fisicamente – avrebbe potuto, in qualche modo, essere preso a esempio dello sfruttamento della carica intimidatoria autonoma, o della sua stessa esistenza.
Al contempo, il primo giudice ritiene non provato che “dietro” queste vicende vi potessero essere interessi economici, pur riconducibili ad imprese vicine a taluno degli esponenti del locale del basso Piemonte relativi alla realizzazione del complesso residenziale Valle San Bartolomeo (considerati in sentenza nulla più di una notizia giornalistica).
[…]
I rilievi significativi sulla valutazione dei fatti e delle prove posta in essere dal GUP, e che sono già sin qui evidenti, nelle motivazioni della Sentenza d'Appello ribaltano completamente il giudizio (da assoluzioni per gli imputati del primo grado a condanna per tutti gli imputati in Appello).
Vediamo quindi le valutazioni sulle motivazioni dell'Appello, compresa la determinante questione CARIDI e Valle San Bartolomeo che ha visto accogliere quanto abbiamo evidenziato documentalmente nella nostra inchiesta presentata al Convegno, insieme a Paolo Bellotti e Danilo Procaccianti, ad Alessandria nel settembre del 2012, e che metteva in evidenza non solo la forza intimidatoria propria del “locale” del basso Piemonte, ma anche la penetrazione ed il condizionamento delle scelte nell'ambito del Comune di Alessandria da parte del CARIDI ed i rapporti proficui dell'altro 'ndranghetista del basso Piemonte, ROMEO Sergio, con la sua impresa e quelle promotrici del progetto di speculazione di Valle San Bartolomeo.
La Procura della Repubblica, dopo aver riportato alcuni brani delle sentenze pronunziate dalla Corte di Cassazione sulle ordinanze di custodia cautelare emesse nei confronti degli odierni imputati nel presente giudizio (ovvero sulle ordinanze reiettive delle istanze di recvoca), ritenute non persuasive dal giudice di primo grado, sottolinea come i principi enunciati dalla Suprema Corte nel caso di specie, lungi dal risultare isolati o eccentrici, siano stati affermati anche in numerose altre sentenze (parimenti richiamate).
Nell'esaminare la sentenza di primo grado, il PM ferma l'attenzione in particolare, sul passaggio motivazionale secondo il quale per aversi l'integrazione del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso è necessario che la forza di intimidazione prevista dal dato normativo sia oggetto di esteriorizzazione o di manifestazione esterna. E quindi la necessità, per potersi ritenere integrata la fattispecie, che sussista e sia provata una carica di intimidazione autonoma, effettiva e attuale tale da ingenerare nell'ambiente circostante percepibili e diffuse condizioni di assoggettamento e di omertà, non essendo sufficiente che il sodalizio abbia programmato o abbia intenzione di avvalersi della carica di intimidazione derivante dal vincolo associativo.
Dopo aver ripercorso gli elementi fattuali dimostrativi dell'esistenza di un locale di 'ndrangheta nel basso Piemonte e averne ricordato i tratti caratterizzanti (struttura verticistica, metodi decisionali, riti di affiliazione, procedimenti sanzionatori degli appartenenti, distribuzione dei ruoli ecc) l'appellante passa ad esaminare la struttura del delitto contestato, soffermando l'attenzione sulla natura di reato di pericolo, a tutela anticipata.
Ma, si mette subito in guardia nell'atto di appello, sostenendo che l'associazione di cui all'art. 416 bis c.p. sia fattispecie di pericolo e non di danno, non significa affatto – come invece si sostiene nella sentenza impugnata – trasformare il metodo mafioso da requisito oggettivo e strumentale a elemento intenzionale e programmatico dell'associazione, onde, anche il P.M., analogamente al giudice di primo grado, ritiene che il metodo mafioso sia un requisito oggettivo e strutturale della fattispecie che contribuisce a differenziarla dalla comune associazione per delinquere.
Ciò che però contesta l'appellante è che il metodo mafioso che rappresenta l'in sé dell'associazione in esame debba necessariamente comportare la natura di danno del reato di cui si discute.
Conseguentemente, contesta l'affermazione contenuta in sentenza secondo la quale l'associazione in discorso sia - anche - un reato di danno, che postula la già avvenuta lesione della libertà morale dei consociati, poiché ciò finisce per contraddire la natura di reato pericolo della fattispecie e la volontà del legislatore che ha inteso anticipare la tutela penale a fenomeni prodromici al verificarsi di un danno vero e proprio.
Di qui l'errore in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado che, ritenendo l'associazione in esame (anche) un reato di danno, sarebbe giunto ad escludere l'integrazione per la mancanza di episodi criminosi riconducibili ai membri del sodalizio e sulla – pretesa – inesistenza di un alone di intimidazione diffuso nella popolazione circostante.
Dunque il PM nell'atto di appello, dopo aver sottolineato che il metodo mafioso dell'associazione è definito dal legislatore con la seguente espressione: “si avvalgono della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”, contesta la chiave di lettura seguita dal giudice di primo grado, ritenendo che tale requisito vada inteso in una duplice accezione:
- esteriorizzazione del metodo da cui deriva una effettiva e attuale sottomissione e omertà della popolazione (cui corrisponderebbe una fattispecie di danno in cui la lesione del bene protetto si è già verificata);
- oppure la possibilità concreta di avvalersi della forza di intimidazione che il sodalizio possiede e la cui manifestazione è idonea a produrre assoggettamento e paura nella collettività (in questo caso si sarebbe in presenza di un concreto e attuale pericolo di danno).
Attraverso questa ricostruzione, prosegue l'appellante, il metodo mafioso rimane un requisito oggettivo e strutturale proprio dell'associazione, che deve essere provato e dimostrato, mentre assumerebbe carattere potenziale (e non intenzionale o programmatico) la sola esplicazione o manifestazione estera della carica intimidatoria e il conseguente effetto dannoso sulla popolazione, che andrà valutato, ex ante, con giudizio prognostico.
La condizioni di assoggettamento e di omertà derivante dalla forza di intimidazione del vincolo associativo va perciò intesa come evento di pericolo e non di danno.
Di qui la necessità di punire anche la mafia dormiente o silente, in grado di mascherarsi e infiltrarsi nel territorio in modo subdolo e silenzioso, che però mantiene intatta la sua pericolosità per l'ordine pubblico e la libertà di autodeterminarsi dei cittadini (…).
Poi, osserva ancora l'appellante, deve tenersi in considerazione il fatto che l'associazione in esame opera in un territorio diverso da quello d'origine (basso Piemonte) ed è insediata tra cittadini che non hanno un'esperienza e una tradizione storica di vicinanza con il metodo mafioso, sicché è impossibile pretendere e ricercare nel nord Italia quelle condizioni di assoggettamento e di omertà proprie dei calabresi (…).
Passando ad esaminare il tema della prova del metodo mafioso, il PM dopo aver premesso che può trattarsi anche di prova critica o logico-induttiva, sottolinea come – secondo alcune pronunzie di legittimità – il metodo intimidatorio possa esplicasi, oltre che con la violenza e la minaccia, anche sfruttando la carica di pressione già conseguita dal sodalizio, ovvero il prestigio criminale della compagine associativa o, ancora, la fama negativa o la capacità di lanciare avvertimenti anche simboli e indiretti. Sicché – prosegue il PM – se l'associazione ha già manifestato in passato la sua esistenza e malvagità, evidenziando la propria indole mafiosa, allora la carica intimidatoria non abbisognerebbe di alcuna esteriorizzazione poiché gli associati potrebbero sfruttare il già conseguito prestigio criminale del sodalizio.
Fatta questa premessa l'appellante si duole del fatto che nella sentenza di primo grado il giudice abbia mandato assolti gli imputati nonostante la prova che avessero costituito una succursale della 'ndrangheta calabrese, sol perché non emergevano le condizioni di assoggettamento e di omertà nella popolazione circostante, come se dopo aver diagnoticato una grave malattia il medico dovesse attendere la sua pervasività nell'organismo infettato, prima di poter intervenire con il bisturi!
Nel caso di specie, si legge ancora nell'atto di appello, ci si trova dinanzi a una filiale della 'ndrangheta calabrese, che, com'è noto, ha raggiunto una fama negativa globale che ha trasceso i confini nazionali, per infiltrare il tessuto sociale, economico e politico di ampie zone del territorio italiano, deviandolo e piegandolo ai propri fini.
[…]
Di tanto si sarebbe avveduta a giurisprudenza che in progresso di tempo avrebbe fatto registrare un percorso interpretativo secondo il quale, preso atto della struttura verticistica della ndrangheta, della sua pervasività e diffusione anche in territori non calabresi, ha attuato un progressivo cambio di rotta dando maggior valore alla configurazione del reato associativo come fattispecie a tutela atipica, quale reato di pericolo, giungendo al consolidato orientamento per il quale l'accertamento in concreto delle caratteristiche strutturali tipiche delle cd. mafie storiche (tra cui la ndrangheta calabrese), può di per sé rappresentare la prova di un'associazione di tipo mafioso, riconducibile al paradigma di cui all'art. 461 bis c.p.
Pertanto, continua il PM nell'atto di appello, pretendere come fa il giudice di primo grado di rinvenire una concreta ed effettiva estrinsecazione di intimidazione che determina assoggettamento e omertà, frustra del tutto la natura anticipatoria della fattispecie in quanto non si comprende come una associazione, nella specie un locale di ndrangheta perfetto come quello piemontese oggetto del presente processo, possa estrinsecare tale carica, senza realizzare quanto meno una minaccia.
E questo significherebbe attendere che si verifichi non solo un danno ma in particolare che si consumi un reato-scopo, cosa che per costante giurisprudenza, condivisa anche dall'estensore della sentenza impugnata, non è necessario avvenga per la configurazione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. (…)
Non a caso, si legge ancora nell'atto di appello, secondo il recente insegnamento della Suprema Corte, enunciato proprio con riferimento a locali di 'ndrangheta del basso Piemonte e della Liguria ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 416 bis c.o. è sufficiente la dimostrazione della riconducibilità della singola compagine o del locale medesimo al modello associativo della 'ndrangheta.
Dopo aver riportato alcuni passi delle sentenze pronunziate proprio con riferimento ai locali del basso Piemonte e della Liguria, il PM sottolinea come le citate sentenze, dopo aver ribadito la natura di pericolo dell'associazione di tipo mafioso, riconoscano la 'ndrangheta come una associazione di stampo mafioso di tipo unitario, considerando pericolose per l'ordine pubblico tutte le articolazioni territoriali che abbiano nel patrimonio genetico i tratti specifici e tipici della 'ndrangheta calabrese.
Ergo, chiosa il PM, a livello probatorio è necessario e sufficiente dimostrare che l'associazione è strutturata con regole e modalità tipiche della “casa madre” per integrare il disposto di cui all'art. 416 bis c.p., avendo in sé la capacità di intimidire e di piegare ai propri fini il tessuto territoriale circostante.
E ancora si legge nell'atto di appello, una volta provata, come nel caso di specie, l'esistenza e l'operatività di una sotto-struttura di 'ndrangheta, che ripete le caratteristiche tipiche di mafiosità dell'organizzazione centrale calabrese [tra cui: la segretezza del vincolo associativo, l'assunzione di ruoli specifici e determinati da parte degli associati, la rigida osservanza del vincolo gerarchico, la presenza di rituali formali di affiliazione e promozione, l'assistenza economica ai carcerati, la penetrazione nella p.a. (vicenda CARIDI)], non occorre dimostrare altro per l'Ufficio inquirente; non occorre cioè la manifestazione esterna del metodo intimidatorio o il compimento di specifici atti delittuosi di intimidazione, né attendere che l'associazione prosperi nel territorio circostante perché ciò coincide con l'aggravarsi di un vulnus che già è ravvisabile nella sola esistenza di una compagine di stamo 'ndranghetista.
Pertanto, osserva il PM nell'atto di appello, è erroneo sostenere, come fa il GUP nella sentenza impugnata, che per le articolazioni di mafia storica come la 'ndrangheta che operano fuori dalla terra di origine, sia necessario un effettivo ricorso a violenza/minaccia espressivi del metodo mafioso, perché tale postulato non tiene conto dell'unitarietà dell'associazione che di fatto si traduce, per ogni singolo affiliato, nella messa a disposizione di tutta la consorteria in ogni momento e in ogni luogo in cui essa abbia bisogno.
Così l'appartenente al locale 'ndrangheta del basso Piemonte, se richiesto dal capo Crimine calabrese o da altro esponente di un locale calabrese o di altro locale distaccato, non potrà esimersi dal fornire il proprio ausilio per qualsiasi tipo di attività lecita o illecita, dalla protezione/ospitalità al latitante, alla ricerca di documenti, dalla consegna di ambasciate alla commissione di delitti. E ciò perché nella mafie storiche la sola affiliazione costituisce contributo costante e determinante alla vita dell'associazione che, pertanto, crescendo anche solo numericamente, aumenta la propria capacità di intimidazione e amplia le proprie potenzialità operative.
Il PM critica poi il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado nel quale i fa riferimento solo ad atti preparatori (come l'affiliazione e in conferimento di una dote al politico CARIDI) in quanto tali atti – erroneamente definiti preparatori e, come tali, incompatibili con un reato a consumazione anticipata come il nostro – realizzerebbero addirittura uno degli scopi dell'associazione (scrive, infatti il PM che l'affiliazione un politico eletto in una amministrazione pubblica, tra l'altro impegnato nell'approvazione di uno strumento urbanistico, realizza uno degli scopi dell'associazione, che la norma configura come oggetto di dolo specifico, infatti – prosegue l'appellante – l'infiltrazione della 'ndrangheta nelle istituzioni rappresenta il più smaccato atto di sfida all'ordinamento democratico, recando di per sé un vulnus e un pregiudizio rilevante all'integrità, al buon andamento e all'imparzialità della p.a.).
A tale proposito il PM si sofferma sulle conversazioni ambientali intercettate nel negozio di ortofrutta GANGEMI aventi ad oggetto proprio l'affiliazione alla 'ndrangheta di CARIDI Giuseppe e il sostegno elettorale offerto per la sua elezione.
Dunque, prosegue l'appellante, non può essere posto in dubbio il fatto che la struttura in esame costituisca una succursale della 'ndrangheta calabrese e che possieda – in quanto tale – un'effettiva e attuale forza di intimidazione emergente dalla stessa struttura distaccata, capace di infliggere sanzioni ai suoi adepti riconosciuti colpevoli di trascuranza, di reperire denaro per sostenere i carcerati e i loro familiari, di procurare le armi, sicché dal suo stabile inserimento nella 'ndrangheta non può dubitarsi, mutando le parole del legislatore, che il locale del basso Piemonte faccia parte della più potente, ricca e pericolosa delle associazioni mafiose, la cui fama negativa ha travalicato i confini nazionale.
Dunque, facendo parte della 'ndrangheta, associazione nota in ambito nazionale e internazionale per la sua efferatezza e potenza, i membri del locale del basso Piemonte dispongono o possono avvalersi di mezzi, risorse, strutture logistiche e supporti in misura ben superiore rispetto alle disponibilità della singola struttura territoriale di cui fanno parte, potendo contare sul sostegno di soggetti calabresi dotati di indubbio spessore criminale, oltreché sul “vissuto” criminale e sull'aura di intimidazione diffusa che l'associazione è riuscita effettivamente a creare in vaste zone del territorio italiano.
L'unitarietà della 'ndrangheta, di cui fanno parte PRONESTI' e gli altri membri del locale del basso Piemonte, al pari di Domenico OPPEDISANO, fa sì che l'accertamento dell'esistenza del metodo mafioso e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano debba essere condotto avendo riguardo alle modalità operative e all'estensione territoriale complessiva dell'intera compagine, non potendosi considerare unicamente il contesto territoriale in cui è insediato il singolo locale, come se questo fosse un'associazione a sé stante, del tutto autonoma e indipendente da quella insediata in Calabria.
[…]
Inoltre, il PM ritiene che seguendo il filo del ragionamento seguito dal giudice di primo grado si finirebbe per legittimare l'esistenza di una 'ndrangheta buona, ovvero non manifestatamente cattiva, come se potesse distinguersi tra i vari tipi di mafia, contro ogni evidenza antropologica e sociologica prima ancora che normativa.
Soggiungendo che le argomentazioni del Gup di Torino si pongano persino in antitesi con la stessa convinzione di quegli imputati che hanno ammesso gli addebiti, manifestando la loro dissociazione dal sodalizio criminale (PRONESTI', DILIBERTO MONELLA Luigi e Stefano, MAIOLO, GIZZETTA e GARIUOLO), obliterando dunque le dichiarazioni di PRONESTI' laddove ammette di avere promosso e fatto parte di un locale distaccato che faceva riferimento alla 'ndrangheta condividendone finalità e metodi.
Infine, l'appellante si duole del fatto che al giudice di primo grado sia sfuggita l'importanza dell'episodio che vide coinvolti i consiglieri comunali di Alessanria CARIDI, BELLOTTI e DE MARTE.
In particolare il fatto che DE MARTE – consigliere comunale di origine calabrese, nonché segretario provinciale del partito dell'Italia dei Valori, ossia dello stesso partito cui apparteneva il consigliere comunale Paolo BELLOTTI – non appena venuto a conoscenza del litigio esploso in seno alla Commissione per il Territorio e che ha visto contrapposti BELLOTTI e CARIDI, lungi dal prendere le parti del BELLOTTI (suo compagno di partito), si sia sentito in dovere di avvertire quest'ultimo del fatto di essersi messo in un guaio più grande di lui, promuovendo subito un incontro pacificatore presso un ristorante della città.
Inoltre, il fatto che solo il consigliere BELLOTTI abbia confermato questo episodio [infatti DE MARTE, allorché venne sentito dal PM lo negò] dimostrerebbe il forte timore, o paura, che CARIDI era in grado di incutere negli altri consiglieri comunali [quanto meno in DE MARTE], anche in quelli aderenti ad altri partiti, che avrebbero dovuto avere un evidente interesse politico a non sottovalutare (se non strumentalizzare) la vicenda del diverbio e della sconsiderata reazione di CARIDI.
Onde suffragare l'attendibilità di quanto narrato da BELLOTTI il PM insta per l'acquisizione, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., dei tabulati telefonici acquisiti nel procedimento 4310/12 mod. K, trattandosi di prova sopravvenuta al giudizio di primo grado in quanto pervenuti al PM solo in data 9-2-2013.
[…]
L'appello del PM risulta fondato, conseguentemente la sentenza impugnata deve essere riformulata nella parte in cui manda assolti gli imputati del reato di associazione di stampo mafioso contestato...
E quindi i giudici della Corte di Appello di Torino motivano la condanna degli imputati:
Come accennato, la sentenza appellata, pur illustrando gli elementi di prova raccolta nel corso delle indagini e ritenuti idonei a integrare – in fatto – l'esistenza di una associazione mafiosa denominata 'ndrangheta, operante da tempo nel Basso Piemonte, perviene all'assoluzione di tutti gli imputati non ritenendo sufficientemente provato che detta associazione, nel territorio in cui era destinata a operare, si fosse avvalsa “del metodo mafioso”.
Di talché, essendo il metodo mafioso un elemento costitutivo oggettivo della fattispecie criminosa contestata, il giudice di prime cure non ritiene provato che gli odierni appellanti, quali appartenenti a tale associazione, si fossero avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti (...)”.
Per tale ragione manda assolti tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”.
[…]
Si conviene con il Gup presso il Tribunale di Torino sul fatto che le conversazioni tra presenti o telefoniche ritualmente intercettate abbiano fatto piena luce sull'esistenza di una struttura della 'ndrangheta, radicata nel basso Piemonte, distinta fra “società minore” e locale, con puntuale ripartizione dei ruoli tra gli aderenti.
Del pari, si concorda con il primo giudice laddove sottolinea che tale struttura “decentrata” della 'ndrangheta riprendesse gli schemi organizzativi propri della “matrice” calabrese e con essa e con altre articolazioni territoriali mantenesse stretti legami (…)
Si condivide pure il ragionamento effettuato dal giudice di primo grado nonché gli elementi di prova utilizzati per giungere alla dimostrazione della sussistenza del locale di 'ndrangheta nel basso Piemonte (…).
Parallelamente, risulta corretto e pienamente condivisibile l'excursus compiuto dal giudice di primo grado, avente ad oggetto gli elementi di prova relativi agli aspetti cd. “dinamici”, ossia gli elementi ritenuti idonei a dimostrare l'esistenza di riti di iniziazione ovvero per il conferimento delle “doti” (alias: avanzamenti di carriera), l'esistenza di procedimenti sanzionatori, finalizzati a punire la violazione delle regole interne da parte dei partecipi (le cd. “trascuranze”) e i vincoli di solidarietà tra gli associati e, in particolare, gli obblighi si sostentamento e di assistenza a favore degli associati detenuti e dei relativi nuclei familiari.
Anche con riferimento all'esistenza di questi momenti “dinamici” della nostra associazione non resta che rinviare alla lettura della sentenza impugnata che, a sia volta, recepisce integralmente la ricostruzione proposta dall'Ufficio del PM con la richiesta di custodia cautelare; peraltro non è fuori luogo sottolineare come la chiarezza e l'inequivocabilità degli elementi di prova raccolti a questo proposito sia corroborata dalla mancanza di contestazioni o di critiche in ordine alla chiave di lettura proposta.
[…]
Ciò, premesso è invece doveroso – con riferimento a ciascun imputato – dar conto degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini, dimostrativi della sua partecipazione all'associazione in discorso [infatti, il giudice di prime cure ha totalmente obliterato questa parte, concentrandosi sulle ragioni di diritto che, a suo parere, imponevano l'assoluzione degli imputati a prescindere dalla loro appartenenza alla societas sceleris].
[…]
Dopo aver passato in rassegna gli elementi a carico di ciascun imputato, nel riannodare le fila del discorso intrecciandolo con le considerazioni del giudice di primo grado, deve convenirsi con la sentenza impugnata che “la locale” del basso Piemonte, pur godendo di autonomia operativa, era certamente assoggettata alle regole e alla potestà promananti dal livello sovraordinato della 'ndrangheta (provincia o capocrimine) sedente in Calabria.
L'esistenza di una “locale” di 'ndrangheta, operante nella zona di Novi Ligure, veniva desunta, in primo luogo, dalla nota intercettazione ambientale effettuata nell'agrumeto di Rosarno (il 30 agosto 2009), di proprietà di OPPEDISANO Domenico.
Quest'ultimo, arrestato nel luglio 2010, notoriamente personaggio di vertice della 'ndrangheta [come riconosciuto recentemente dalla stessa Corte di Cassazione], era solito ricevere presso l'agrumeto altri affiliati, provenienti da varie zone dell'Italia e dall'estero.
Ebbene, durate l'incontro del 30 agosto 2009, tali ZANGRA' Rocco e GARIUOLO Michele, residenti rispettivamente ad Alba ed a Sommariva del Bosco [entrambi imputati di associazione mafiosa, ancorché la posizione del primo sia stata stralciata e giudicata separatamente], chiedevano all'OPPEDISANO il permesso di costituire una autonoma “locale” di 'ndrangheta in Alba, così da potersi distaccare dalla “locale” di appartenenza, circa 100 km da tale ultima città, e avente a capo tale Bruno, poi individuato dagli inquirenti nel(...) PRONESTI' Bruno Francesco.
[…]
L'esistenza della “locale” del Basso Piemonte emergeva, poi, da una riunione, tenutasi presso l'abitazione di Bosco Marengo del PRONESTI', in data 30 maggio 2010, riunione che è stata oggetto di intercettazioni ambientali e di servizio di osservazione.
Ad essa parteciparono gli odierni appellanti, ad eccezione di BANDIERA Gaetano, CARIDI Giuseppe, GARIUOLO Luigi, REA Romeo e CERAVOLO Fabrizio, per un totale, secondo quanto si desume da una conversazione captata, di 12 persone appartenenti alla “locale” del Basso Piemonte (…).
Alla riunione partecipò altresì una delegazione di tre persone, appartenenti al “locale” di Genova, capitanata da tale GANGEMI Domenico, arrestato nel luglio 2010.
[…]
Fu poi registrata una interessante discussione nel corso della quale furono menzionate le cariche ricoperte da vari soggetti nell'ambito dell'organizzazione, in cui, tra l'altro, emerse che l'appellante BANDIERA Gaetano era “capo dei giovani”.
Ulteriori elementi indiziari erano costituiti da captazioni, intervenute dopo l'esecuzione, nel luglio 2010, di misura cautelare riguardante circa trecento affiliati alla 'ndrangheta in tutta Italia (tra cui i già citati OPPEDISANO Domenico, ZANGRA' Rocco e GANGEMI Domenico).
In particolare, in una conversazione ambientale, GUERRISI Francesco, genero del PRONESTI', commentava sbalordito le tecniche di indagini che consentirono agli inquirenti di raccogliere gli elementi indiziari a carico dei fermati, paventando un possibile futuro fermo del suocero, posto che – a suo dire – gli inquirenti sarebbero stati a conoscenza della riunione a casa del PRONESTI', affermando di avere convinto – per questa ragione – quest'ultimo a gettare via agende compromettenti.
In altra captazione ambientale, avente ad oggetto una conversazione tra PRONESTI' e PERSICO Domenico, emergeva il ruolo apicale, nell'ambito della “locale” del Basso Piemonte, rivestito dal PRONESTI', il quale affermò di avere sospeso alcuni affiliati, colpevoli di avere condiviso con ZANGRA' la volontà di aprire una “locale” autonoma in Alba.
Come si è visto, le indagini di P.g. facevano pure emergere l'esistenza di veri e propri “riti”, per l'affiliazione di nuovi associati e per la promozione, a cariche superiori, di soggetti già affiliati.
Così emergeva l'affiliazione di CARIDI Giuseppe (il 28-2-2010...), alla presenza anche di una delegazione della “locale” di Genova, con a capo GANGEMI.
L'esistenza di un preciso rituale si desumeva dalle intercettazioni telefoniche, nelle quali, come si è visto, i vari interlocutori discutevano dell'ammissibilità di affiliare alla “società” un politico, concludendo in senso positivo, essendo stato ritenuto, il CARIDI, un “buon cristiano” che sarebbe potuto tornare utile all'organizzazione.
Ancora, dall'attività di intercettazione ambientale e telefonica emergeva la previsione di sanzioni, in caso di trasgressione delle regole della “società”, e di un procedimento per la loro irrogazione.
[…]
Ancora, dall'attività captativa emergeva l'interessamento dell'organizzazione mafiosa per l'assistenza ai sodali arrestati e alle rispettive famiglie.
Le indagini compiute mettevano in luce pure il carattere armato dell'associazione, attesa l'accertata disponibilità di armi in capo a suoi membri […]
Ciò premesso, questo Collegio condivide la valutazione, operata dal giudice di prime cure, secondo cui, essendo l'associazione ex art. 416 bis un reato di mera condotta, e di pericolo presunto contro l'ordine pubblico, il locus commissi delicti deve ravvisarsi in quello in cui l'associazione esplica il proprio potere e concretamente radica la propria attività, ergo, nel caso di specie, nel Basso Piemonte.
Per quanto qui interessa, infatti, tutti gli odierni appellanti erano residenti in tale zona geografica.
Inoltre, seppure la maggior parte di essi sia, per origini familiari, calabrese, alcuni risultano nati ormai in Piemonte (così BANDIERA Angelo e BANDIERA Gaetano).
Ciò che più rileva, la “locale” in esame – come palesato dalla stessa emblematica affermazione di PRONESTI' “compare Mico... il Basso Piemonte risponde a noi” (…) - esplica la sua attività sul territorio del Basso Piemonte, operando in stretta sinergia con le “locali” geograficamente vicine, quale quella di Genova: evenienza, quest'ultima, che testimonia di per sé la rilevanza del radicamento territoriale, nell'ambito della “onorata società”.
La già menzionata riunione di (quasi) tutti gli appartenenti alla struttura territoriale, tenutasi il 30.5.2010, si svolge infatti a Bosco Marengo (AL), presso l'abitazione del “capo locale” PRONESTI' (alla presenza di una delegazione della “locale” di Genova, guidata da GANGEMI Domenico).
Inoltre, per l'affiliazione del consigliere comunale di Alessandria Giuseppe CARIDI, compiuta anch'essa alla presenza di una delegazione della vicina “locale” di Genova, guidata da GANGEMI Domenico [in nota: il PRONESTI', a sua volta, ricambia le “visite” dei rappresentanti della “locale” di Genova, secondo quanto emerso da attività captativa e di osservazione, partecipando, il 17.1.2010, nel territorio del comune di Bordighera, al conferimento di una “dote” di 'ndrangheta, ossia di una carica all'interno della società, ed il 31.05.2010, in Diano Marina, ai funerali di RIOTTO Giuseppe], non consta, gli atti, una richiesta di autorizzazione agli esponenti sovraordinati della “onorata società”, operanti in Calabria. Parimenti, non consta che una tale autorizzazione fosse stata richiesta per conferire, nell'ambito della medesima riunione, ulteriori “doti” ad altri soggetti, quali la “santa” al MAIOLO.
Quanto all'irrogazione delle sanzioni, per la violazione delle regole interne della “società”, ad essa provvidero direttamente gli esponenti di vertice, della “locale” del Basso Piemonte, e, in primo luogo, il “capo locale” PRONESTI'.
[…]
Pur non mancando i contatti con l'organizzazione 'ndranghetistica, insediata in Calabria, come impongono di presumere i frequenti viaggi in tale regione di alcuni imputati (tra cui PRONESTI', MAIOLO, ZANGRA', GARIUOLO Michele...) e come dimostrano le più recenti acquisizioni giudiziarie, secondo le quali la 'ndrangheta non una struttura prettamente “orizzontale”, esistendo un “organismo collegiale”, sovraordinato ai singoli “locali”, denominato “Provincia” o “Crimine”, di cui sarebbe stato eletto capo il già citato OPPEDISANO Domenico, gli elementi probatori innanzi menzionati, unitamente alla circostanza che furono i membri del “locale” del Basso Piemonte, e non la struttura centralizzata, a farsi carico degli associati arrestati e delle rispettive famiglie, consentono di affermare la sussistenza di una sfera di autonomia organizzativa ed operativa in capo al “locale” in esame.
Sfera di autonomia che tuttavia soffriva di alcune importanti limitazioni, come risulta dal fatto che, per formare una nuova “locale”, era necessario il beneplacito del vertice della 'ndrangheta [come si evince dalla nota conversazione dell'agrumeto di Rosarno intercorsa tra ZANGRA' Rocco, GARIUOLO Michele e OPPEDISANO Domenico e avente ad oggetto l'apertura di un nuovo locale nella zona di Alba].
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A ben vedere, l'opzione ermeneutica seguita dal giudice di primo grado non convince laddove, dopo aver correttamente premesso che per la consumazione del delitto associativo di stampo mafioso non è necessaria la consumazione di reati fine, afferma che per potersi ravvisare l'associazione di stampo mafioso debbano essere ricercati – e provati – i “segni” del manifestarsi di un agire sfruttando la forza intimidatrice del vincolo associativo, giungendo così ad attribuire al reato associativo in esame una natura anfibia: di pericolo e di danno […].
E' evidente la contraddittorietà di questa costruzione: da un lato si afferma (correttamente) che per l'integrazione del delitto in esame non sia necessaria la commissione di reati-scopo, dall'altro si richiede che la libertà morale dei consociati sia già effettivamente lesa ovvero che i consociati versino “in condizione di succubanza e soggezione” nei confronti degli appartenenti all'associazione di stampo mafioso e, quindi, nella condizione di persone offese dalla commissione di reati di varia natura e gravità.
Se, invece, la condizione di succubanza e soggezione deve essere apprezzata in una accezione pre-giuridica, ovvero sociologica o storica (a tacere ogni considerazione sulla opportunità di recepire e, successivamente, di provare un dato sociologico nell'ambito del processo penale), allora ben può ritenersi sussistente nel caso di specie in virtù dello stretto collegamento dell'associazione in esame con la “casa madre”, in uno con la notoria pericolosità ed efferatezza della 'ndrangheta, non a caso “tabellata” come associazione di tipo mafioso dal legislatore a prescindere da ogni altra caratteristica (…).
Del resto, una spia non trascurabile di quell'alone di diffusa intimidazione che – a dire del giudice di primo grado – avrebbe dovuto caratterizzare la forza inimidatrice di cui si avvale l'associazione di stampo mafioso, ben può evincersi dall'episodio qualificato in sentenza come dissidio intercorso tra i consiglieri comunali CARIDI Giuseppe e BELLOTTI Paolo, nell'ambito della Commissione Territorio del Comune di Alessandria.
Come ricorda correttamente il giudice di primo grado, nel corso dei lavori della Commissione del Territorio, presieduta da CARIDI Giuseppe, BELLOTTI Paolo, membro della Commissione (Consigliere Comunale di minoranza, appartenente al partito I.d.V.), accusò CARIDI di convocare la Commissione in orario mattutino al deliberato fine di ostacolare la partecipazione alla seduta dei professionisti aderenti al comitato di tutela di Valle San Bartolomeo e così facilitare l'approvazione delle delibere [in primis l'approvazione della variante al P.R. per la quale – tra l'altro – stando alle notizie giornalistiche e alle dichiarazioni di alcuni politici locali, erano interessate alcune imprese “vicine” a CARIDI, tra cui l'impresa edile facente capo al coimputato Sergio ROMEO...]
Nel corso dell'alterco BELLOTTI giunse ad apostrofare CARIDI con l'epiteto di “quaquaraqua”, e, quest'ultimo – visibilmente adirato – scagliò contro il collega una sedia, senza colpirlo.
La vicenda ebbe qualche eco sulla stampa locale (…) e, soprattutto, indusse immediatamente il compagno di partito Vincenzo DE MARTE (all'epoca dei fatti segretario provinciale dell'I.d.V.) a esortare il collega BELLOTTI a non sporgere alcuna denunzia nei confronti di CARIDI, ammonendolo sul fatto che si era cacciato “in un guaio più grosso di lui”, al quale doveva assolutamente rimediare (chiedendo scusa a CARIDI ovvero partecipando a un incontro chiarificatore con il medesimo, una sorta di cena riappacificatrice).
Dopo aver rievocato l'episodio, il giudice di primo grado ne ha svalutato l'importanza, osservando come la condotta per nulla remissiva o intimidita di BELLOTTI, prima, e le scuse presentate da CARIDI nel corso dell'incontro conviviale, poi, non potessero ritenersi sintomatiche del metodo mafioso in discorso (giungendo a dubitare anche dell'idoneità del contesto ambientale in cui si verificano i fatti a coartare la libertà morale del BELLOTTI: “... A ben vedere, poi, il fatto stesso che “l'intimidazione” avvenne in una sede pubblica, alla presenza degli organi di stampa ne elide, in gran parte, il carattere di avvertimento mafioso che ad essa si vuole attribuire...”...)
Questo collegio non condivide la chiave di lettura di questo episodio proposta nella sentenza appellata.
Come non manca di evidenziare il PM nell'atto di appello questo fatto non è importante in sé (ossia, per l'alterco che vide coinvolti i due consiglieri comunali e neppure per il motivo che lo provocò) ma per l'incomprensibile reazione che suscitò in DE MARTE Vincenzo, collega di partito del BELLOTTI e segretario provinciale dell'I.d.V.
Stando alle dichiarazioni di BELLOTTI, fu proprio DE MARTE Vincenzo (guarda caso di origine calabrese) ad ammonirlo circa il grosso guaio in cui si sarebbe cacciato attaccando così pesantemente CARIDI, esortandolo a non presentare alcuna denunzia e, anzi, a riappacificarsi con quest'ultimo chiedendogli scusa.
Poco importa che DE MARTE abbia negato la circostanza di avere evocato al compagno di partito il grosso guaio in cui si sarebbe cacciato (e quindi non abbia fornito agli inquirenti alcuna spiegazione di tale sua affermazione), ciò che conta è che effettivamente BELLOTTI, dopo l'alterco, parlò dapprima con DE MARTE, e, successivamente, con l'assessore GIORDANO (parimenti di origine calabrese, amico e collega di partito del CARIDI), quindi non presentò alcuna denunzia e, grazie ai buoni uffici interporsi da GIORDANO, partecipò ad una cena, ospite di CARIDI, nel corso della quale quest'ultimo pur senza formulargli espressamente le sue scuse, gli chiese di non dare seguito alla vicenda (“mi disse di finirla lì”) giustificando la sua reazione scomposta sia con i gravi problemi familiari che stava vivendo in quel momento sia con la pesantezza dell'insulto ricevuto da BELLOTTI (“quaquaraqua”).
E' un fatto che quell'episodio venne messo a tacere e non fu “sfruttato”, neppure a fini di propaganda politica, dal DE MARTE (quale segretario provinciale dell'I.d.V.) ovvero da altri componenti dei partiti di minoranza (lo stesso DE MARTE ammise che la sua preoccupazione principale fu quella di fare da paciere...)
E' pure singolare che BELLOTTI abbia accettato di partecipare a una cena, che visse con disagio crescente, rendendosi poi conto che si trattò di “una sorta di rito” finalizzato a evitare che sporgesse querela (…)
Dunque, la singolarità della vicenda sta nella modalità con la quale si chiuse l'alterco, dalla quale non si può non vedere – mutuando la terminologia della sentenza impugnata – l'alone di rispetto di cui godeva CARIDI Giuseppe, quanto meno presso i colleghi politici di origine calabrese (tra cui DE MARTE e GIORDANO).
Conseguentemente, non pare fuori luogo cogliere in questa vicenda l'esistenza di quella forza intimidatrice che il vincolo associativo produsse sui consociati, o quanto meno, sui politici locali di origine calabrese.
In definitiva, questa Corte non condivide le ragioni illustrate nella sentenza appella a sostegno della pronunzia liberatoria, senza ignorare che, secondo alcune pronunzie della giurisprudenza di legittimità, “Ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 416 bis cod. pen., è necessario che l'associazione abbia conseguito, in concreto, nell'ambiente nel quale essa opera, un'effettiva capacità di intimidazione. Ne consegue che, in presenza di un'autonoma consorteria delinquenziale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, è necessario accertare che tale associazione si sia radicata “in loco” con quelle peculiari connotazioni” (così Cass. Pen., Sez. V, 19141/2006, con specifico riferimento, secondo si evince dalla motivazione, ad un'asserita associazione di stampo 'ndranghetista, operante in Milano; cfr. altresì, Cass. Pen., Sev. VI, 38875/2006, con riferimento al c.d. clan “Mazzaferro” insediato in territorio lombardo, e ormai svincolato dalla 'ndrangheta). Né si nasconde che, nel caso in esami, non è stata (sinora) accertato il compimento di reati-satellite, ad eccezione di fatti di detenzione e porto abusivo di armi.
Ritiene tuttavia che tale giurisprudenza di legittimità si sia formata prima dell'acquisizione della consapevolezza che la 'ndrangheta non è una mera denominazione, di carattere sociologico, di consorterie criminali indipendenti le une dalle altre, caratterizzate dall'origine calabrese, dalla matrice familistica, e da un analogo modus operandi, bensì un'unica organizzazione criminale, articolata in strutture territoriali autonome (le c.d. “locali”), coordinate appunto dal già menzionato organismo collegiale sovraordinato, denominato “Provincia” o “Crimine”.
Tale piena consapevolezza è maturata dopo le indagini culminate nei trecento fermi del luglio 2010, nell'ambito delle quali è emersa l'importanza di Domenico OPPEDISANO, quale “Capo Crimine”, vero e proprio “numero uno” dell'organizzazione.
Stando così le cose, deve ritenersi che l'affiliazione ad una singola “locale”, “riconosciuta” dalla “Provincia” o “Crimine” - come palesato, nel caso di specie, dal tenore delle conversazioni tra alcuni affiliati piemontesi e Domenico OPPEDISANO in persona, nelle quali è inequivocabile il riferimento dell'OPPEDISANO a “Bruno” (PRONESTI'), come al “capo locale” del Basso Piemonte – concreti, già di per sé, quel pericolo (presunto) per l'ordine pubblico, che costituisce ratio della fattispecie ex art. 416 bis c.p.
Non bisogna dimenticare, infatti, che, secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, per la punibilità del singolo partecipe alla 'ndrangheta non è necessario che questi ponga in essere personalmente attività di tipo mafioso, essendo sufficiente all'integrazione del reato la mera partecipazione all'associazione: “La condotta di partecipazione ad un'associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire alla associazione che si sia già formata, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo, che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa. Nel caso dell'associazione di tipo mafioso, differenziandosi questa dalla comune associazione per delinquere per la sua peculiare forza di intimidazione, derivante dai metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati (ai quali si richiede di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano a trovarsi in contatto con l'associazione e che ad essa eventualmente resistano), il detto contributo può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all'associazione da parte del singolo, il quale presti la sua disponibilità ad agire come “uomo d'onore”, ai fini anzidetti” (Cass. Pen. Sez. II, 2350/2004); e ancora: “la adesione al sodalizio criminale della 'ndrangheta, in quanto vincolo permanente e sempre utilizzabile, costituisce già di per sé un contributo alla associazione di cui potenzia la operatività complessiva” (Cass. Pen., Sez. I, 27427/2005).
In ogni caso, allo stato, pur in assenza di acquisizioni probatorie sulle concrete attività illecite esplicate dall'associazione criminosa sul territorio del Basso Piemonte, la forza di intimidazione e lo stesso metodo “mafioso” sono desumibili dal fatto che l'apertura del locale in discorso fu possibile solo dopo aver ottenute il beneplacito della “casa madre” (alias: Provinzia o Capo Criine, come ben si evince dalla famosa conversazione dell'agrumeto di Rosarno del 30-8.2009, avente ad oggetto l'autorizzazione all'apertura di un nuovo locale nella zona di Alba, nonché dalle stesse dichiarazioni intercettate presso l'abitazione di PRONESTI' il 30-5.2010: vds. laddove MAIOLO Antonio rispondendo alla richiesta di ZANGRA' affermò testualmente: “...non si può fare si perché il locale è 'ndrangheta vera...” …), dai rituali adottati per l'affiliazione e la promozione nei diversi ruoli, dalla vita sociale interna, caratterizzata dall'osservanza di rigide regole, alla cui violazione – come si è visto – era ricollegata l'irrogazione di sanzioni, nonché dal soccorso da apprestare nei confronti degli affiliati detenuti e dei loro familiari (come dimostra il doveroso interessamento degli associati all'assistenza legale di CERAVOLO Fabrizio nonché ai bisogni morali e materiali dei suoi familiari, dopo il suo arresto).
Al contempo, la forza di intimidazione si desume dall'essere stata l'associazione “armata”.
[…]
Pertanto sussiste a carico di tutti gli imputati, odierni appellanti, l'aggravante di cui all'art. 416 bis, 4 comma, c.p.: posto che secondo la Suprema Corte: “In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso la circostanza aggravante della disponibilità delle armi – di cui all'art. 416 bis, commi quarto e quinto, cod.pen. - non richiede la diretta detenzione né il porto di esse, e, una volta provato l'apparato strutturale mafioso, l'eventuale disponibilità di armi o esplosivi da parte di alcuni degli associati, ben può ritenersi finalizzata, in linea di principio, al conseguimento degli scopi propri dell'associazione di tipo mafioso. E' dunque sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti abbiano la disponibilità di armi, per il conseguimento dei fini del sodalizio, perché detta aggravante, di natura oggettiva, sia configurabile a carico di ogni partecipe il quale sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati, o lo ignori per colpa” (…)
Conseguentemente, non convincono le dichiarazioni rese da MAIOLO Antonio, DILIBERTO MONELLA Luigi e Stefano, GUZZETTA Damiano e GARIUOLO Luigi, laddove – pur ammettendo la loro partecipazione alla 'ndrangheta – negarono la disponibilità di armi da parte dell'associazione ovvero la consapevolezza che altri associati fossero armati (…)
[…]
Come accennato, anche nel presente processo la Suprema Corte, nel rigettare i ricorsi dei difensori di PRONESTI', PERSICO, CARIDI, ROMEO Sergio e REA Romeo (oltre che di GUERRISI), ravvisava – sia pure a livello gravemente indiziario – l'esistenza dell'associazione mafiosa tipo 'ndrangheta a carico dei prevenuti.
[…]
Sulla scia di questa opzione ermeneutica si collocano pure le recenti sentenze pronunziate dalla 1° sezione penale della Suprema Corte sui ricorsi nell'interesse di GARCEA Onofrio e CONDIDORIO Arcangelo (come si è visto appartenenti al “locale” di Genova). Ebbene anche in questo caso i giudici di legittimità, così argomentavano in merito alla necessità del riscontro ab esterno del metodo mafioso: “(...) Sul secondo versante, i motivi di ricorso, anche presupponendo la costituzione di una associazione che con regole metodi caratteristiche da assoggettamenti ed omertà all'interno dei suoi componenti, segnalano la mancanza del metodo mafioso che dovrebbe configurarsi solo laddove l'associazione abbia conseguito, in concreto, nell'ambiente nel quale essa opera, nella specie Genova e la Liguria, una effettiva capacità di intimidazione. Con la conseguenza che, in presenza di un'autonoma consorteria delinquenziale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, sarebbe necessario accertare che associazione si sia radicata in loco con quelle peculiari connotazioni.
Ora, nella misura in cui una tale prospettazione comporti la realizzazione di concreti atti di violenza o di sopraffazione nel territorio in cui opera, la stessa viene a contraddire la struttura del reato di pericolo che si è inteso dare alla fattispecie in esame.
Peraltro il rilievo attribuito al dato ambientale, a causa del quale le condizioni di assoggettamento e di omertà perderebbero gran parte della loro dipendenza eziologica dell'elemento della forza di intimidazione, può rendere più difficile riscontrare il livello di capacità intimidatrice raggiunto dalla associazione criminale punibile ai sensi dell'art. 416 bis c.p., comma 3. In tale prospettiva l'assoggettamento e l'omertà, più che elementi strutturali qualificanti l'entità della intimidazione, sarebbero conseguenza della carica maturata dal sodalizio nel substrato civile della società. Ma la conseguenza, in tal caso, sarebbe quella impossibilità di configurare l'esistenza di associazioni mafiose in regioni refrattarie, per una serie di ragioni storiche e culturali, a subire i metodi mafiosi propri, nella specie, della 'ndrangheta. Sarebbero anche le conseguenze quelle di non poter configurare il metodo mafioso subito da un soggetto che effettivamente ne ha percepito il peso ma in un contesto generale, sia locale che personale, refrattario a condividerlo. Ed ancora può aggiungersi, sul piano probatorio ed in via speculare, che il rilievo attribuito al dato ambientale, a causa del quale le condizioni di assoggettamento e di omertà perderebbero gran parte della loro dipendenza ed eziologia dalla forza di intimidazione, può rendere più difficile riscontrare il livello di capacità intimidatrice raggiunto dalle associazioni criminali punibili ai sensi dell'art. 416 bis c.p., comma 3. In base a tali considerazioni, deve escludersi la necessità per la configurazione della associazione qualificata, di atti esterni di intimidazione e violenza, - e che pur vengano segnalati nell'ordinanza impugnata -, per essere tra l'altro contraddistinta, l'associazione, dal perseguimento di finalità non necessariamente coincidenti con la commissione di reati, potendo le sue azioni – esemplificando procurare a se e ad altri voti durante le campagne elettorali – essere sostanzialmente neutre dal punto di vista criminale. Quel che costituisce elemento essenziale della associazione, nella specie, di 'ndrangheta, non è l'attualità dell'esecuzione della intimidazione, ma la sua potenzialità, la sua capacità di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con gli affiliati all'organismo criminale. Ora una volta verificata la costituzione di un gruppo autonomo criminale che ripete le caratteristiche strutturali propri dei locali costituiti in Calabria, che si ispira alle proprie regole interne, che mantiene collegamenti con la 'ndrangheta propria calabrese, può ritenersi, sul piano indiziario proprio della fase procedimentale delle indagini preliminari, costituita una associazione che, per l'organizzazione che si è data, con collegamento con locali costituiti in Liguria, con un forte vincolo con gli associati, ripete le caratteristiche della vera e propria 'ndrangheta, la cui “fama” ha trasceso i confini regionali se non nazionali: da qui la capacità del “locale” di Genova, di intimidire al fine di perseguire le sue finalità a prescindere dalla concreta realizzazione delle stesse che peraltro potranno ben restare alla fine oggetto di mera rappresentazione volitiva (...)” (…).
Anche nel 2013 (in pratica sino ad oggi) la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nel ribadire questa opzione interpretativa nell'ambito del procedimento “Colpo di Coda”, affermava, tra l'altro: “... E' noto che, a fronte della forma libera che caratterizza la fisionomia del reato associativo e della mancata tipizzazione della relativa condotta di appartenenza, è stata fissata dal legislatore e dall'interprete la tipicità delle caratteristiche fondamentali dell'associazione mafiosa, che sono tre: la forza di intimidazione del vincolo associativo, cui consegue una condizione di assoggettamento e di omertà di interi settori della comunità sociale di alcune aree del territorio nazionale; il metodo dell'associazione , che consiste nell'avvalersi di tale forza intimidatrice; il programma finale avente ad oggetto la commissione di delitti, l'acquisizione in modo diretto, o indiretto, della gestione o del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e di servizi pubblici, ovvero il conseguimento di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri; il condizionamento della vita democratica del paese, attraverso la limitazione del libero esercizio del diritto di voto dei cittadini. Sotto i primi due profili, autorevole dottrina richiama l'attenzione su di una caratteristica tipica delle associazioni di stampo mafioso attualmente operanti: esse, a causa della fama acquisiti con atti di violenza o di minaccia a danno di chiunque ne ostacolasse l'attività, sono ormai in grado di incutere timore per la loro stessa esistenza, generando in coloro con cui vengono in contatto una condizione di assoggettamento, cioè di sottomissione incondizionata, e un conseguente atteggiamento di omertà, cioè di reticenza e di rifiuto di collaborare con gli organi inquirenti, dettato dalla esperienza di ritorsioni e rappresaglie, in danno dei trasgressori del silenzio. Tali requisiti si collegano, da un lato, agli effetti prodotti da precedenti comportamenti intimidatori; dall'altro, alla possibilità di utilizzare tali effetti per la realizzazione dello scopo finale: si collegano a un'attività precedente, perché l'associazione ha acquistato la sua forza, proprio in virtù di reiterati comportamenti di violenza e minaccia; si riferiscono alla possibilità futura di utilizzare questa forza, dato che questa, oltre a consentire ai soci di poter contare su un'efficace protezione (l'omertà), da parte di coloro che sono a conoscenza della “cattiva fama” dell'organizzazione, fa apparire assai più agevole l'intimidazione di quei soggetti la cui sottomissione all'associazione influisca sulla potenzialità dell'associazione di conseguire i propri obiettivi nel campo economico, politico, giuridico. Questo collegamento della forza intimidatrice con il passato presuppone quindi non solo pregresse attività di criminose attività di violenza e minaccia, ma anche che esse abbiano manifestato uno spessore qualitativo, territoriale, mediatico tale da conferire una capacità promozionale all'espansione del timore, dell'assoggettamento e dell'omertà nella collettività originaria e in tutte le altre in cui l'associazione abbia deciso di radicarsi e di agire, in vista della realizzazione dei programmi intermedi e del programma finale di sostanziale esercizio del potere in uno o più territori.
Perché sia configurabile il fondamentale requisito dell'utilizzazione sistematica della forza intimidatoria (il cd. metodo mafioso), è stato posto l'interrogativo se sia necessario che l'associazione ne abbia tratto effettivamente utilità, ovvero se sia sufficiente che essa si proponga di utilizzarla, anche se poi non se ne sia concretamente servita. In altri termini, il verbo avvalersi, contenuto nella norma, allude necessariamente a uno specifico ed esteriore comportamento intimidatorio? Esemplificando con ipotetiche manifestazioni della forza intimidatrice, è stato rilevato che il messaggio intimidatorio può acquisire diverse forme, in correlazione al livello raggiunto dalla “cattiva fama” dell'associazione, rappresentate da: a) esplicito e mirato avvertimento mafioso – rispetto al quale il timore già consolidato funge da rafforzamento della minaccia specificatamente formulata; b) messaggio intimidatorio avente forma larvata o implicita (avvertimento della sussistenza di un interesse dell'associazione per un comportamento attivo o omissivo del destinatario, con implicita richiesta di agire in conformità); c) assenza di messaggio, con silente richiesta, qualora l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito.
In quest'ultima ipotesi di messaggio silente, l'espressione e l'utilizzazione della forza intimidatoria non è ricollegabile a una specifica, attuale condotta degli associati, ma a una situazione, creata da una pregressa, vigente e attuale carica intimidatrice dell'associazione, che, in virtù delle promozioni di assoggettamento e omertà, non ha più bisogno di ricorrere a specifici comportamenti di violenza e minaccia. Il metodo mafioso dell'avvalersi della forza intimidatoria – una volta che abbia creato un alone extraterritoriale -, che ne proietta la forza intimidatrice al di là degli originari confini geografici e socio-economici – non si manifesta necessariamente con contingenti atti di delinquenza comune (i reati fine, diretti alla coercizione, alla limitazione delle libertà di manifestazione del pensiero, di produrre reddito esentasse da balzelli mafiosi, di rapportarsi lealmente con le istituzioni, di esercitare i diritti politici), ma è ricostruibile con elementi fattuali, che, anche se non illeciti, sono funzionali alla realizzazione di un indispensabile programma strumentale, realizzazione che riceve quindi spinta non da specifici atti promozionali di paura, assoggettamento e omertà, ma dalla cattiva fama, conquistata in precedenza dall'associazione.
L'ineludibile funzionalità del programma intermedio alla realizzazione del programma finale lo rende oggetto di dolo specifico, identificato nell'intenzione di ricorrere alla forza del vincolo associativo, ove il messaggio – fondato sulla fama – non abbia dato i previsti risultati di adeguamento degli altrui comportamenti. Posto che qualsiasi organizzazione che gestisce in maniera illecita mezzi e fini, non è disposta a compromettere la propria esistenza e ad arrestare la propria azione dinanzi all'eventualità che la loro fama si riveli insufficiente a piegare la volontà dei destinatari, i componenti sanno e si son curati di far sapere di essere intenzionati a ricorrere a metodi di persuasione più diretti ed espliciti.
Un gruppo avente natura di associazione mafiosa si presenta quindi caratterizzato, nella consolidata storiografia giudiziaria nel campo mafioso, da un nucleo di associati, da un programma criminoso, da una proiezione territoriale della propria forza intimidatrice, da una o più tipologie di condotte lecite e illecite, svolte in un molteplice fronte.
In questa proiezione collettiva e corale alla commissione di fatti criminosi, con possano infrangere le norme dello Stato, hanno acquistato rilievo – agli occhi dei consociati e conseguentemente all'attenzione degli inquirenti dello Stato – vincoli di fedeltà, di reciproca assistenza tra gli adepti, operanti nello scontro, perdente, con il potere repressivo dello Stato, esercitato con i provvedimenti processuali o definitivi, di privazione della libertà personale di alcuni aderenti.
Questo aspetto organizzativo dell'associazione mafiosa di difesa, rispetto alla rivincita della legge penale, ha messo in luce – nei processi aventi a oggetto il crimine associativo – un dato patrimoniale utile ai fini dell'individuazione dell'associazione e della ricostruzione del rapporto intercorrente tra gli indagati e l'associazione medesima: la inclusione dei primi tra i retribuiti con i profitti criminali. Tale circolazione di denaro – in nome della solidarietà e della resistenza alla legalità – ha condotto razionalmente, all'interno dell'ormai consolidata storiografia giudiziaria, alla constatazione che trattasi della corresponsione al detenuto, a titolo di compenso per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell'associazione mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti, sia pure con limitata potestà di azione. Proprio il suindicato aspetto organizzativo di difesa mafiosa (la presenza degli indagati nella raccolta e nella distribuzione di risorse economiche, in funzione di ripartizione dei guasti creati dall'intervento punitivo dello Stato) ha attenuto dai magistrati del presente procedimento il riconoscimento di dato illuminante della sussistenza dell'associazione mafiosa e della partecipazione ad essa dei ricorrenti, così come è stato delineati nel capo di imputazione. Tale circolazione di beni ha portato il Gip e il Tribunale del riesame alla considerazione che trattasi proprio della suddetta corresponsione al detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo, per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell'associazione mafiosa, di cui solo logicamente da ritenere componenti. Il Tribunale del riesame di Torino ha quindi confermato la razionale considerazione, secondo cui la presenza di alcuni indagati tra i partecipi alla raccolta e alla distribuzione del fondo solidarietà detenuti abbia efficacia indiziaria della partecipazione, da parte dell'operatore o del beneficiario, all'associazione predetta, nella sue varie articolazioni. Questa raccolta di denaro e di altri beni non è giustificata da solidarietà familiare, in quanto gli inquirenti dimostrano di avere accertato che i versamenti sono stati effettuati da persone che non sono legate da rapporti di parentela ai beneficiari.
[…]
Nella sentenza della Sez. V, 19 marzo 2013, n. 28531/13 Benedetto Massimo, rel. Bevere (ricorso avverso ordinanza Trib. Riesame di Torino: processo “Colpo di Cosa”; locale di Nichelino, Chivasso e Livorno Ferraris) si legge quanto segue:
“(...) Le censure mosse dal ricorrente rendono necessaria una riflessione sulla peculiarità di questa ritenuta articolazione extra territoriale della 'Ndrangheta, costituita dal locale di Chivasso, i cui componenti, secondo la ricostruzione degli inquirenti, hanno esportato/importato, dal luogo di nascita e di radicamento (la Calabria), la peculiare forza intimidatrice e l'autonoma capacità di conseguire i risultati vantaggiosi, in un territorio, in una società diversi, sotto il profilo dell'economia, della cultura, del costume, dei rapporti con i pubblici poteri. Secondo un condivisibile orientamento interpretativo, in queste ipotesi di mafiosità trapiantata dalla terra di origine ad altro territorio, ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 416 bis cod. pen., è necessario accertare che tale associazione si sia radicata “in loco” con quelle peculiari connotazioni, che la rendono titolare di un'effettiva capacità di intimidazione, che le deriva dall'accertata genesi in area della geografia mafiosa, di cui si attuale portatrice e utilizzatrice di assoggettamento e di omertà... Il radicamento in loco dell'associazione va riconosciuto – tenuto conto della diversa tipologia del messaggio intimidatorio... - a prescindere da esplicite manifestazioni di minaccia e violenza, quali messaggi promozionali di timore, assoggettamento omertà, essendo rilevante la manifesta utilizzazione, da parte dei soggetti associati, della “posizione di rendita”, ricavata dalla collaudata e riconosciuta fama della collegata casa madre... - Non appare condivisibile – alla luce del presente quadro indiziario – l'orientamento interpretativo secondo cui (…), nell'ipotesi di un'associazione mafiosa che dirami sue articolazioni in aree territoriali diverse da quelle di origine, non necessariamente si formano altrettante autonome consorterie delinquenziali, essendo comunque decisiva l'analisi della variabile economico-sociale, che notoriamente caratterizza le varie parti del territorio italiano. La capacità di intimidazione che promana dal vincolo associativo, con i suoi effetti di assoggettamento e di omertà, potrebbe dispiegarsi, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione, a condizione che si dimostri il dispiegarsi di una struttura extraterritoriale di soggetti, collegati a conterranei uniti da vincoli associativi nella terra d'origine, in un territorio tradizionalmente permeabile alla minaccia mafiosa, in base alla storia locale e alla fama conquistata in un passato di violenza e di paura; in questo contesto socio-culturale una mera notorietà di appartenenza, un contrasto di interesse bastano a condizionare la capacità di produrre reddito ad esclusivo profitto personale, la libertà di esercitare il diritto di voto, la libertà di agire lealmente con le istituzioni. Se queste articolazioni si inseriscono ed agiscono in un contesto sociale diverso, alieno a soggiacere alla subcultura mafiosa, al rifiuto verso l'ordine e la legalità, in cui non sia rinvenibile l'humus in cui alligna e prolifera la devianza mafiosa, il metodo mafioso deve prendere i connotati di esteriorizzazione; è necessaria una condotta positiva dei sodali dai chiari sintomi di mafiosità, empiricamente percepibili. Il prevalere di questa tesi porrebbe problemi interpretativi dall'esito necessariamente incerto in sede giudiziaria, quali la ricostruzione e il rilievo da attribuire alle condizioni socio-culturali dei territori e delle popolazioni autoctone, i criteri di misurazione della resistenza locale al metodo mafioso, la possibilità che, all'esito della misurazione della permeabilità del territorio alla cattiva fama dell'associazione di cui gli emigranti appaiono esponenti, tali condizioni siano idonee a supplire ad un deficit di sintomi di mafiosità empiricamente percepibili, la variabilità della rilevanza penale di medesimi comportamenti nei diversi territorio dell'Italia costituzionalmente unita, ma economicamente e culturalmente frazionata”.
Ancora più nette sono le considerazioni contenute nella sentenza del 7 maggio 2013, n. 28091, sempre V° sezione penale, Maiolo Mario Tonino, rel. Lignola (ricorso avverso ordinanza Trib. Riesame di Torino: processo “Colpo di Cosa”; locale di Nichelino, Chivasso e Livorno Ferraris); in questa decisione dopo aver riecheggiato le considerazioni illustrate nella sentenza Benedetto Massimo, la Suprema Corte aggiunge: “(...) La difesa contestata la sussistenza del metodo intimidatorio del “locale” di Livorno Ferraris, a suo giudizio non desumibile dalla complessiva associazione 'ndrangheta, poiché questa è caratterizzata da assoluta segretezza, anche interna, circa l'identità degli affiliati, per cui è impossibile che i cittadini siano in condizione di assoggettamento ed omertà rispetto ad una struttura di potere della quale non conosce l'esistenza. In proposito l'ordinanza (del Tribunale del Riesame di Torino, ndr) richiamando una precedente decisione di questa Corte relativa proprio alla 'ndrangheta in località piemontesi (…) precisa che 'la capacità intimidatoria del locale di Chivasso e del locale cosiddetto di Livorno Ferraris non è solo quella che promana dal vincolo associativo dei rispettivi associati, ma anche quella della 'ndrangheta di Torino alla quale i due locali sono collegati attraverso il crimine e l'istituenda provincia, ma, soprattutto con la 'ndrangheta calabrese alla quale sono legati attraverso i rispettivi referenti, attraverso una delle tre province di appartenenza ed attraverso il crimine della montagna' …Il gruppo criminale piemontese, operante fuori dalla Calabria, costituisce, quindi, un'articolazione del gruppo calabrese della 'ndrangheta con proprie strutture e specifiche finalità, connotate da autonomia rispetto alla 'ndrangheta calabrese, facendosi carico, tra l'altro, dei sodali arrestati e dalle rispettive famiglie... E' infatti possibile configurare un sodalizio criminale di stampo mafioso autonomo, pur in mancanza di compimento di reati satellite, come nella fattispecie, laddove, come nel caso di specie, il gruppo mutua il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche essendosi radicata in loco con quelle peculiari connotazioni, perpetrando in altro contesto spaziale le stesse metodiche comportamentali. - Questa Corte ritiene configurabile il rato associativo in presenza di una mafia silente, purché l'organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto lascino concretamente presagire, come nella fattispecie in esame, la prossima realizzazione di reati fine dell'associazione, concentrando la presenza del marchio ('ndrangheta), in una sorta di franchising tra province e locali che consente di ritenere sussistente il pericolo presunto per l'ordine pubblico che costituisce la ratio del reato di cui all'art. 416 bis c.p.”.
Alla stessa conclusione perviene la sentenza 4-17 luglio 2013 n.29923 della 2° sezione penale della Corte di Cassazione (rel. Davigo) che testualmente osservava: “la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, per qualificare come mafiosa un'organizzazione criminale è necessaria la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono in contatto con gli affiliati all'organismo criminale”.
Mette conto sottolineare come la natura unitaria della 'ndrangheta, con tutte le conseguenze che ne derivano circa la “natura mafiosa” delle sue cellule delocalizzate, pur nella autonomia delle singole “locali” sia stata espressamente ribadita da Sez. V, 22 novembre 2012 n. 18491/13, Vadalà, rel. Guardiano: “La corte territoriale (C.A. Reggio Calabria) ha correttamente ricondotto le vicende portate alla sua attenzione al paradigma normativo del delitto associativo di cui all'art. 416 bis c.p., inserendole in un contesto storico giudiziario, costituente ormai fatto notorio, rappresentato dalla mostrata esistenza di un'organizzazione a delinquere denominata 'ndrangheta, la cui natura unitaria è stata definitivamente accertata attraverso l'iter giudiziario conclusosi con la sentenza pronunciata nell'ambito del procedimento cd. 'OLIMPIA' dalla V sezione della Corte di Cassazione il 12 aprile 2002, n. 24711, nei confronti di Condello ed altri... La notorietà di un fatto (nella specie, l'esistenza di una associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p.) ben può desumersi in modo certo dalle decisioni dell'autorità territoriale più p meno ristretto... il reato di associazione mafiosa è configurabile anche in difetto della commissioni di tali reati, purché l'organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino concretamente presagire la possibile realizzazione... La tipicità della fattispecie di cui all'art. 416-bis si coglie non tanto negli scopi... ma nelle modalità attraverso cui l'associazione decide di manifestarsi e si manifesta concretamente: l'intimidazione ed il conseguente insorgere nei terzi di quella situazione di soggezione, che può derivare anche soltanto dalla conoscenza della pericolosità del sodalizio di stampo mafioso...”.
Ciò posto, questa Corte ritiene di dover convintamente aderire all'ultimo consolidato orientamento della Suprema Corte (che, si ripete, si è pronunciata in questo senso anche nel presente procedimento, sia pure in ambito cautelare...) e, conseguentemente, di dovere disattendere l'interpretazione seguita dal giudice di primo grado che da tale – consolidato orientamento ha (motivatamente) preso le distanze.
Anche al fine di scongiurare il paradosso, icasticamente descritto dal PM nell'atto di appello, di pervenire a una precoce – quanto inutile – diagnosi della patologia cancerosa (costituzione ed esistenza dell'associazione di stampo mafioso), senza poter effettuare alcun valido intervento terapeutico, prima della proliferazione delle metastasi.
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… come correttamente ritiene la Corte di Cassazione, in presenza di una organizzazione di tipo mafioso quale la 'ndrangheta, che mutua fedelmente il modello organizzativo e i riti di affiliazione della “casa madre”, dalla quale deve ottenere il placet per poter utilizzare il nome “dell'onorata società”, il cui vertice interviene a dirimere i conflitti interni e ad effettuare una sorta di supervisione sui problemi di maggiore rilevanza, è corretto presumere “... la prossima realizzazione di reati fine dell'associazione, concretando la presenza del marchio ('ndrangheta), in una sorta di franchising tra “province” e “locali” che consente di ritenere sussistente il pericolo presunto per l'ordine pubblico, che costituisce la ratio di cui all'art. 416 bis c.p. La forza di intimidazione e lo stesso metodo mafioso del “locale” piemontese della 'ndrangheta sono stati individuati: a) dai rituali attraverso cui avviene l'affiliazione e la promozione dei diversi ruoli all'interno dell'associazione mafiosa; b) dalla vita sociale interna dell'associazione, caratterizzata da rigide regole, alla cui violazione è ricollegata l'irrogazione di sanzione, come è emerso in occasione di un episodio (della cd. “trascuranza”), evidenziato dal Tribunale, emergendo dalle intercettazioni anche il collegamento con la struttura di Rosarno, il cui capo OPPEDISANO Domenico ha indicato nel PRONESTI', come emerge dalle intercettazioni ambientali, il capo del locale del basso Piemonte; c) dall'episodio relativo all'affiliazione del CARIDI, che all'epoca rivestiva la qualità di Consigliere del Comune di Alessandria; d) dall'essere stata l'associazione armata essendo stato uno dei presunti affiliati, Fabrizio CERAVOLO, arrestato in flagranza, in data 11-10-2009, essendo stato trovato in possesso (…) di una pistola automatica Beretta, con matricola abrasa insieme al munizionamento [altra pistola revolver perfettamente efficiente venne rinvenuta nel corso della perquisizione domiciliare eseguita nei confronti di CERAVOLO, mentre – dalle conversazioni captate all'interno dell'abitazione di PRONESTI' – risulta che anche quest'ultimo si procurò un'arma da fuoco e relativo munizionamento: reato contestato al capo b) per il quale -...- il prevenuto è stato condannato in primo grado, n.d.e.]. Hanno natura oggettiva le circostanze aggravanti del reati di associazione di tipo mafioso, consistenti nell'avere l'associazione la disponibilità di armi, in quanto è sufficiente che detta circostanza sia riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe, non richiedendosi la diretta detenzione né il porto di esse, e, una volta provato l'apparato strutturale mafioso, l'eventuale disponibilità di armi o esplosivi da parte di alcuni degli associati, ben può ritenersi finalizzata, in linea di principio, al conseguimento degli scopi propri dell'associazione di tipo mafioso. E' dunque sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti abbiano la disponibilità di armi, per il conseguimento dei fini del sodalizio, perché detta aggravante, di natura oggettiva, sia configurabile a carico di ogni partecipe il quale sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati, o lo ignori per colpa, non sussistendo – attesa l'ampia formulazione dell'art. 59, comma seconda, cod. pen. - introdotto dalla legge 7-2-1990 n.19, logica incompatibilità tra l'imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come circostanza in questione (…). Nel caso in cui convergano le caratteristiche organizzative sopra evidenziate deve ritenersi che la finalità della commissione di delitti, tipica della associazione mafiosa, non debba necessariamente estrinsecarsi nella effettiva precedente commissione di reati-fine, essendo sufficiente la mera struttura illecita dell'organizzazione finalizzata alla programmazione e realizzazione di reati quale finalità della consorteria mafiosa.
Nella fattispecie risultano già anche individuati i capi (nel caso di specie PRONESTI') e gli adepti della “Locale”, che aveva rapporti con la “locale” genovese, come risulta proprio dalla riunione congiunta tra la “locale” piemontese e quella genovese a casa del PRONESTI'. Con riferimento agli elementi evidenziati, deve ritenersi sussistente il pericolo per l'ordine pubblico senza che sia necessaria la commissione di reati-fine potendo essere le modalità mafiose riscontrate anche dalla esecuzione di rituali riconducibili a quelli mafiosi, sia nei comportamenti, che nel contenuto delle conversazioni (…), senza che siano necessarie condotte eclatanti, ravvisandosi in tale evenienze, nella condotta prositiva dei sodali e nel complessivo modo di essere del sodalizio, chiari sintomi di mafiosità..” (così, ex multis, Corte di Cass., 2° sez. penale, sent. n. 4306/12 del 11-1-2012 dep. Il 1-2-2012, est. Chindemi, ric. PERSICO).
In conclusione, la sentenza appellata deve essere riformata e tutti gli imputati (…) devono essere dichiarati colpevoli del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso loro contestato.
Invece... la sentenza marita di essere confermata con riferimento alla pronunzia di condanna a carico di PRONESTI' Bruno Francesco per il rato di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo e relativo munizionamento, contestato al capo B) dell'imputazione.
APPROFONDIMENTI
la scheda sugli esponenti della 'ndrangheta
e le imprese PEC Valle San Bartolomeo
clicca qui o sull'immagine per aprire e scaricare il .pdf
la scheda sulla cronologia dell'iter del PEC
e delle Varianti al PRG ed i fatti del contesto
clicca qui o sull'immagine per aprire e scaricare il .pdf
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