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Bombe a Reggio, condanne confermate in Appello

CATANZARO L’armiere del clan Lo Giudice, Antonio Cortese, e la mente imprenditoriale e strategica della famiglia, Luciano Lo Giudice sono responsabili delle bombe che nel 2010 hanno sconvolto Reggio città. ...

CATANZARO L’armiere del clan Lo Giudice, Antonio Cortese, e la mente imprenditoriale e strategica della famiglia, Luciano Lo Giudice sono responsabili delle bombe che nel 2010 hanno sconvolto Reggio città. Lo ha affermato la Corte d’appello di Catanzaro, confermando la condanna a 8 anni e 6 mesi per Luciano Lo Giudice, come mandante, e a 5 anni e 8 mesi, come esecutore materiale per Antonio Cortese. A chiamarli in causa, dopo essersi pentito, è stato Nino “il Nano” Lo Giudice, fratello di Luciano ed elemento di vertice dell’omonima famiglia, che si è autoaccusato degli attentati del 3 gennaio 2010 alla procura generale di Reggio Calabria, di quello del successivo 26 agosto sotto casa del procuratore generale Salvatore Di Landro, come del bazooka fatto ritrovare nei pressi del Cedir, il palazzo che ospita procura e tribunale, il 6 ottobre dello stesso anno.

LA VERSIONE DEL NANO Secondo quanto messo all’epoca a verbale dal collaboratore, e in seguito ripetuto in una serie di processi, quelle bombe sarebbero state un messaggio diretto per quei magistrati reggini, “rei” di non aver “aiutato” Luciano Lo Giudice, che un anno prima era stato arrestato per usura. Una protezione – ha affermato il pentito nei suoi primi verbali – che la famiglia pretendeva in virtù delle informazioni fornite, mirate soprattutto all’individuazione del covo in cui si nascondeva Pasquale Condello.

ELEMENTI DA CHIARIRE Una tesi che ha sempre lasciato perplesso anche l’ex procuratore generale Di Landro, principale obiettivo degli attentati, anche perché – hanno affermato sentenze definitive – l’indagine che ha portato alla cattura del superboss Condello, sviluppata dal Ros dei Carabinieri, all’epoca guidato dal comandante Valerio Giardina, e coordinata dall’allora pm Giuseppe Lombardo, si è basata esclusivamente su attività tecniche e investigative e mai e poi mai su eventuali soffiate di informatori. Anche le inchieste parallele aperte sui magistrati che a detta del Nano avrebbero garantito protezione al fratello si sono risolte in un nulla di fatto. Del resto, è stato lo stesso Lo Giudice – fuggito dal luogo di protezione dopo essersi pentito di essersi pentito – a ritrattare tutto quanto in precedenza dichiarato in due infuocati memoriali.

RELAZIONI PERICOLOSE E CONFUSE RITRATTAZIONI Una pagina oscura e che solo da poco il Nano ha iniziato a chiarire. Fra gli elementi scelti dalla ‘ndrangheta reggina per i contatti con Faccia di mostro, l’ex killer di Stato che più di un collaboratore ha identificato nell’ex agente della Mobile, Giovanni Aiello, Lo Giudice sarebbe stato destinatario di una serie di mirate minacce, proprio dopo aver iniziato a parlare dei rapporti con “il Mostro”. Per questo – ha spiegato nei più recenti verbali – avrebbe tentato di ritrattare tutto quanto in precedenza dichiarato, mischiando verità e clamorose bugie, in modo da confondere le acque e “rassicurare” chi lo aveva minacciato di pesanti ritorsioni. Circostanze su cui tuttora si indaga per fare chiarezza ed identificare con precisione gli autori delle minacce, che secondo le indiscrezioni filtrate nei mesi scorsi, si sospetta che facciano parte della medesima rete del “Mostro”.

LE VERITA’ DI VILLANI Ma ulteriori tasselli di verità su una pagina di storia reggina che appare ancora incompleta potrebbero arrivare anche dalle nuove dichiarazioni di Consolato Villani. Cugino dei Lo Giudice, ma soprattutto autore materiale degli attentati e degli omicidi dei carabinieri del 93-94, con cui la ‘ndrangheta ha suggellato la propria partecipazione agli attentati continentali – ideati da mafie, settori piduisti della massoneria, pezzi di servizi e della galassia nera come parte di una strategia mirata a instaurare un governo amico – Villani da poco ha iniziato a parlare non solo di quella stagione, ma anche della rete che l’ha orchestrata. «Entità» le ha definite il pentito, di cui ancora mostra di aver paura.

MOSTRI, NUMI TUTELARI E TRADIMENTI Un tessuto di relazioni che dagli anni Novanta in poi avrebbe avuto a Reggio solidi addentellati e nella famiglia Lo Giudice uno dei punti di riferimento operativi, perché come tale individuato dai vertici strategici della ‘ndrangheta. Rapporti – ha spiegato di recente Villani, interrogato al processo “Ndrangheta stragista” – in virtù dei quali Nino Lo Giudice si sentiva garantito. «Quando Luciano è stato arrestato – ha spiegato Villani in aula – Nino Lo Giudice si è spaventato. Si è sentito tradito dalle entità che frequentava. Lui si sentiva intoccabile, ma quando hanno arrestato Luciano, ha iniziato ad avere paura che non fosse così». Era il 2009, un anno delicato. «Prima delle bombe alla Procura generale?», gli ha chiesto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. «Prima», ha risposto secco Villani, senza aggiungere alcun dettaglio su una stagione che sembra ancora oggetto di interesse investigativo.

 

 

Tags: 'ndrangheta, cosa nostra, reggio calabria, massoneria, processo, inchiesta, servizi, destra eversiva, stragista

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